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di Massimo Mannarelli

L'OTIUM NEL QUOTIDIANO DI EMIL CIORAN

Il carattere distintivo del dandy è quello di non fare decisamente nulla, di essere assolutamente inutile poiché solo così, pensava Baudelaire, può preservarsi dalla volgarità insita una funzione in quanto tal visto che in ogni mestiere obbliga a perseguire uno scopo altro rispetto a ciò che si è, mentre il vero artista non esce mai da se stesso.

Cioran è l’esemplare di homo balkanicus che passi i suoi lunedì al sole, il cui unico espediente è il non essere taciturno (se fossi d’indole taciturna sarei morto di fame da parecchio tempo”, scrive ai genitori nel 1946); egli realizza pienamente il desiderio di Charles Bukowski che diceva quello che desidero è solo potermi grattare sotto le ascelle.

La sua vita è un impresa eroica verso la sopravvivenza, resistere sorretto dall’unico imperativo categorico “Occorre fare di tutto, tranne che lavorare”.

Cioran si priva di ogni rendita scegliendo di abdicare ad ogni occupazione obbligatoria, egli compie voto di inefficacia sottoponendosi ad ogni tipo di privazione ed accettando perfino la povertà pur non di non essere costretto a vivere ma soprattutto a scrivere.

Nello Zhuang-zi si dice che la povertà non è miseria. Quando un letterato non può mettere in pratica la sua dottrina, questa è miseria. Con il vestito rappezzato e le scarpe bucate egli è povero, ma non è miserabile. Ciò significa soltanto che i tempi non gli sono stati propizi.

Cioran baratta la propria capacità d’intrattenimento con la generosa ospitalità degli amici, passando da una casa alla’altra egli vive coraggiosamente con il rischio improvviso dell’indigenza totale pur di garantirsi una esistenza priva di costrizioni sociali.

Se per Hegel il lavoro è ciò che distingue veramente l'uomo dagli animali, permettendogli di realizzarsi come essere spirituale, lasciando una traccia concreta di sé nel mondo, per Cioran invece è l’animale a destare la sua simpatia infatti scrive: “Solo l’animale trova grazia ai miei occhi. Che assurdità quella d’una scimmia che va in ufficio ! Confinarsi in una stanza, mettersi al proprio tavolo di lavoro, restarvi per delle ore, – no, l’ultima delle bestie è più vicina alla verità dell’uomo. E quando penso a questa maledetta razza di funzionari, che impiegano le loro giornate ad occuparsi di cose che non li riguardano, che non hanno niente in comune con i loro pensieri o il loro stesso essere! Nella vita moderna nessuno fa ciò che dovrebbe fare, soprattutto ciò che desidererebbe fare” .

Se nel sistema capitalista, afferma Marx, il singolo viene sottoposto a questo lavoro alienante dove non si realizza, trattato come un oggetto, finisce per ridursi a tale, producendo merci diviene egli stesso una semplice merce.

Per Cioran invece si tratta di chiamare le cose con il loro nome: “Fintanto che l’operaio lavora più di tre ore al giorno sarà uno schiavo, quale che sia il regime in cui vive, foss’anche quello dei suoi sogni…”.In altre parole, quando a vari livelli tutti sono asserviti, nessuno più si rende conto di esserlo, ognuno percepisce solo le differenze di grado, rimanendo cieco rispetto a quelle essenziali, come quella tra libertà e servitù.

L’otium precede il negotium, sia dal punto di vista temporale che etimologico, che il lavoro sia una sorta di catastrofe più o meno necessaria, posteriore alla vita beata degli dei, è una verità su cui le civiltà antiche si trovavano tutte concordi.

Se nella Genesi è solo in seguito alla cacciata dal Paradiso che il lavoro diviene addirittura una dannazione divina, nel mondo ellenico percepire un salario era condizione degradante per il cittadino, lo stesso Platone negava i diritti politici a coloro che esercitavano mestieri degradanti o attività per natura ingannevoli e menzognere come il commercio. Nella “La città perfetta” – sentenzia dal canto suo Aristotele – “non farà dell’operaio un cittadino”. Nella Sparta di Licurgo il lavoro manuale era a tal punto disprezzato che si ricopriva d’infamia chi, come Esiodo, osava tesserne l’elogio, non per niente fu soprannominato dai Lacedemoni “il poeta degli Iloti”. Al di là dei mestieri nobili, quali l’agricoltura e le armi, la cultura latina aborriva le sordidae artes, debitamente riservate agli schiavi.

Occorreva tuttavia la perversione moderna per elevare l’abominio del lavoro al rango d’un diritto, d’un dovere etico, se non, addirittura, d’un piacere… Tradendo la vocazione universale dello spirito, l’uomo ha preferito tumularsi nei limiti angusti e avvilenti d’una professione. Considerandosi niente di più di ciò che fa, diventando cioè una risorsa tra le tante, si è consegnato anima e corpo a processi produttivi impersonali che finiscono per abbruttirlo irrimediabilmente, tanto da renderlo irriconoscibile perfino a se stesso. In una parola è diventato funzionario.

Se l’uomo iniziò la sua carriera come imago Dei, si avvia invece a terminarla come fattore produttivo, sottospecie traviata dell’homo economicus. Per guarire dalla “piaga d’esser nati”, – scrive Cioran nella prima versione del Précis – “la terra avrebbe dovuto essere un sanatorium: non è che una fabbrica, dove si alimenta la nevrosi della produzione “Il lavoro: una maledizione che l’uomo ha trasformato in voluttà.

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