PENSARE LA MORTE IN SENECA
Tutta imperniata sull’assunto mortale si presenta la “Consolatio ad Marciam” ovvero l’opera più antica di Seneca.
Essa è un compimento consolatorio destinato ad una nobil donna romana Marcia affranta e sofferente per la perdita del giovane figlio Metilio.
L’autore si impegna a dimostrare che non vi è male alcuno nella morte, essendo quest’ultima il passaggio ad una vita migliore poiché la “finis” libera gli uomini da ogni sofferenza quale annullamento totale della coscienza e del sentire.
Seneca scrive:“mors dolorum omnium exsolutio est” e continua affermando che “est finis ultra quem mala nostra non exeunt”; la morte non è né un bene né un male; infatti può essere un bene o un male ciò che è qualche cosa; ma ciò che di per sé non è nulla e che riduce al nulla ogni cosa, non ci colloca in una situazione né buona né cattiva”.
Il concetto di morte come nullificazione è affermato in modo efficace anche nel coro delle “Troades”: “Post mortem nihil est” e ancora: “Non è nulla la morte: l’ultima meta di una corsa rapida”. Inoltre dice: “Chiedi dove sarai dopo la morte? Là dove sono le cose che non nacquero mai”. Nell’epistola 54 delle “Epistulae morales ad Lucilium”, Seneca dice che “mors est non esse” e che noi uomini ci “spegniamo e ci accendiamo” come delle lampade: nell’intervallo in cui siamo accesi, cioè in vita, proviamo qualche sofferenza, ma “prima e dopo vi è una pace profonda”.
La meditazione sulla morte viene praticata in modo energico e con lo scopo di abbattere il tormento e l’angoscia che assale nel pensare la morte stessa; tale riflessione ha come fine la consapevolezza che essa è termine naturale dell’esistenza, la ragione quindi compie lo sforzo di vincere il timore della fine della vita con una visione di ritorno integrale alla natura.
Seneca torna spesso a chiedersi che cosa sia la morte e cosa attenda l’uomo dopo la morte.
Egli propone più volte l’alternativa platonica secondo cui la morte è desiderabile sia nel caso che equivalga a non esistere più, sia che comporti la trasformazione e il trasferimento dell’anima in un altro luogo. Seneca condensa queste affermazioni nelle formule “aut finis aut transitus” (riferito alla morte) e “aut beatus aut nullus” (riferito a chi è morto).
Il filosofo si pronuncia per lo più a favore della morte vedendo in essa l’estinzione totale della coscienza individuale.
L’ipotesi del “transitus” è invece preferita nelle “Consolationes”. Nella “Consolatio ad Marciam” sopra citata, è descritta la dimora astrale delle anime, con chiari echi del“Somnium Scipionis” ciceroniano. Anche in una delle ultime epistole, la 102, il filosofo parla con accenti solenni e commossi di una vita che attende l’anima dopo il distacco dal corpo: la sosta in questa vita mortale è soltanto il preludio di un’altra vita, migliore e più lunga. Nel seguito della lettera Seneca sviluppa il tema della seconda nascita, costituita dal distacco e dalla liberazione dell’anima dal peso di un corpo imperfetto e corruttibile, un momento in cui saranno finalmente svelati all’ “animus” i segreti della natura:“...attraverso il periodo che va dall’infanzia alla vecchiaia, diventiamo maturi per un altro parto. Ci attende un’altra nascita, un altro ordine di cose”. Quel giorno “che paventi come l’ultimo è il primo dell’eternità”.
In conclusione Seneca tratta il tema della morte non solo dal punto di vista filosofico, ma anche etico affermando che non bisogna temere né dispiacersi di fronte alla morte, come sostiene in alcune lettere. Tratta in particolare questo argomento nell’ “Epistola 30” prendendo in esame la figura di Aufidio Basso autore delle “Historiae”, che al cospetto della morte mantiene il suo animo tranquillo (“hilarem”) e in ciò è aiutato dalla filosofia. E’ importante morire con animo sereno, considerato anche il fatto che la morte è inevitabile: “magna res est..., cum adventat hora illa inevitabilis, aequo animo abire”. Il concetto di inevitabilità della morte è presente anche nell’ “Epistola 99”: “Può uno lagnarsi di un avvenimento, se sapeva che doveva avvenire? Se poi non sapeva che l’uomo è destinato a morire, ha voluto ingannare se stesso. Chi può dolersi di un fatto, quando sa che è inevitabile?”. Nonostante ciò fino alla fine ogni individuo spera di poter prolungare la propria vita, anche solo per pochissimo tempo, come afferma sempre nell’ “Epistola 30”.Più volte durante la vita ci si sottrae al pericolo della morte, ma “nulla può sperare chi muore di vecchiaia”, soltanto alla morte per vecchiaia non ci si può sottrarre. Comunque è del tutto inutile temere la morte, in quanto in quell’istante non si prova alcun dolore, perchè non si ha sensibilità: “forse qualcuno crede che si avrà la sensazione della morte per opera della quale ogni sensibilità ci è tolta?”. Dunque “mors adeo extra omne malum est, ut sit extra omnem malorum metum”. Sempre nell’ “Epistola 99” Seneca parla della cattiva consuetudine di piangere e disperarsi per la morte di un congiunto. Questo “dolore oltre ad essere inutile ha questo vizio: è una manifestazione di ingratitudine”, in quanto ci si dovrebbe rallegrare di avere avuto la persona scomparsa, piuttosto che essere mesti per averla perduta. Inoltre è ingiusto lagnarsi di ciò che dovrà capitare prima o poi a tutti; oltre a ciò è stolto attardarsi nel rimpianto soprattutto quando fra la morte della persona cara e chi la rimpiange corre un intervallo di tempo minimo. Pertanto “se siamo coscienti che presto seguiremo quelli che abbiamo perduto, dobbiamo essere più sereni”. Lamentarsi della morte di un uomo significa lamentarsi che quello sia stato uomo: “siamo tutti soggetti ad un unico destino: chi nasce deve morire”.