IL PESSIMISMO LEOPARDIANO
Cosa certa e non da burla si è che l'esistenza è un male per tutte le parti che compongono l'universo (e quindi è ben difficile il supporre ch'ella non sia un male anche per l'universo stesso...) ... Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. (Zibaldone – 22 aprile 1826).
Il vivente... desidera il bene senza limiti. Questo bene in sostanza non è altro che il piacere. Qualunque piacere anche grande... ha limiti... Quindi nessun piacere può soddisfare il vivente... Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto (12 febbraio 1821).
La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l'accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura
mira a sanare, a spegnere quel mal umore, quell'odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, e non vorrebbero esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente a' loro simili... La mia filosofia mira a sanare tale malessere, sollecita gli uomini a trovare forme di solidarietà, a superare gli steccati ch'essi stessi innalzano; del male che s'arrecano l'un l'altro, non sono responsabili gli uomini. La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l'odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all'origine vera de' mali de' viventi (Zibaldonedel 2 gennaio 1829).
La riflessione filosofica e la poetica leopardiana è centralizzata sulla condizione umana; l’uomo in relazione con la natura e la storia. Gli studiosi, prendendo in esame principalmente l’opera dello Zibaldone, hanno individuato due fasi significative definite “pessimismo storico” e “pessimismo cosmico”.
Queste fasi sono caratterizzate dall’idea, sempre più forte e radicata col passare del tempo, che gli esseri viventi sono condannati dalla Natura matrigna a un’infelicità senza rimedio.
La fase del “pessimismo storico” inizia con l’intervento di Leopardi nella polemica fra classicisti e romantici; Leopardi che prende le difese dei classicisti, nel 1816 in un articolo che non viene pubblicato e poi nel 1818 nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica: il confronto fra tempi antichi e tempi moderni si risolve a favore del passato, in cui regnavano la poesia e l’immaginazione e quindi anche la felicità.
Leopardi scrive nello Zibaldone: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. Questa riflessione lo porta a elaborare il concetto di “pessimismo storico”.
Indagando sulla causa dell'infelicità umana, il Leopardi segue la spiegazione di Rousseau, e afferma, con la sua "Teoria delle Illusioni", che gli uomini furono felici soltanto nell'età primitiva, quando vivevano a stretto contatto con la natura, ma poi essi vollero uscire da questa beata ignoranza e innocenza istintiva e, servendosi della ragione, si misero alla ricerca del vero. Le scoperte della ragione furono catastrofiche: essa infatti scoprì la vanità delle illusioni, che la natura, come una madre benigna e pia, aveva ispirato agli uomini; scoprì le leggi meccaniche che regolano la vita dell'universo; scoprì il male, il dolore, l'infelicità, l'angoscia esistenziale. La storia degli uomini quindi, dice il Leopardi, non è progresso, ma decadenza da uno stato di inconscia felicità naturale, ad uno stato di consapevole dolore, scoperto dalla ragione. Ciò che è avvenuto nella storia dell'umanità, si ripete immancabilmente, per una specie di miracolo, nella storia di ciascun individuo. Dall'età dell'inconscia felicità, quale è quella dell'infanzia, dell'adolescenza e della giovinezza, allorché tutto sorride intorno e il mondo è pieno di incanto e di promesse, si passa all'età della ragione, all'età dell'arido vero, del dolore consapevole e irrimediabile . La ragione è colpevole della nostra infelicità, in contrasto con la natura madre provvida, benigna e pia, che cerca di coprire col velo dei sogni, delle fantasie e delle illusioni le tristi verità del nostro essere. Gli antichi erano felici perché sapevano immaginare e traducevano questa capacità in grandi azioni eroiche; i moderni sono invece prigionieri di un mondo angusto, teso solo al soddisfacimento di bisogni elementari, privo delle grandi visioni e passioni che caratterizzavano il passato: la virtù, l’eroismo, la forza del corpo e dell'anima.
Il fallimento dei moti liberali del 1821 mette in dubbio la speranza di Leopardi che sia possibile recuperare una qualche antica felicità attraverso l’impegno civile. Anche per questo la sua attenzione si sposta dal tema della felicità che non si può raggiungere a quello dell’infelicità che non si può evitare.
La conclusione a cui arriva è chiamata “pessimismo cosmico”: anche se l’uomo riuscisse a raggiungere il piacere, questo non compenserebbe mai i mali – la malattia, la vecchiaia e la morte – a cui la Natura lo ha destinato. Dio non esiste, tutto è meccanico e casuale; l’uomo è una delle tante creature che abitano la terra e la Natura non è guidata da un disegno benevolo, non ha a cuore la felicità dei viventi – uomini o animali che siano – ma mira solo a perpetuare l’esistenza del cosmo.
Leopardi approfondisce la sua meditazione sul problema del dolore e conclude scoprendo che la causa di esso è proprio la natura, perché è proprio essa che ha creato l'uomo con un profondo desiderio di felicità, pur sapendo che egli non l'avrebbe mai raggiunta: "0 natura, natura, perché non rendi poi quel che prometti allor ? Perché di tanto inganni i figli tuoi ?", dice il poeta nel canto "A Silvia". Così, di fronte alla natura, Leopardi assume un duplice atteggiamento: ne sente allo stesso tempo il fascino e la repulsione, in una specie di "odi et amo" catulliano. L'ama per i suoi spettacoli di bellezza, di potenza e di armonia; la odia per il concetto filosofico che si forma di essa, fino a considerarla non più la madre benigna e pia (del primo pessimismo), ma una matrigna crudele ed indifferente ai dolori degli uomini, una forza oscura e misteriosa, governata da leggi meccaniche ed inesorabili . Questo pessimismo investe tutte le creature (sia gli uomini che gli animali). Ma in questo momento della sua meditazione il Leopardi rivaluta la ragione, prima considerata causa di infelicità. Essa gli appare colpevole di aver distrutto le illusioni con la scoperta del vero, ma è anche l'unico bene rimasto agli uomini, i quali, forti della loro ragione, possono non solo porsi eroicamente di fronte al vero, ma anche conservare nelle sventure la propria dignità, anzi, unendosi tra loro con fraterna solidarietà, come egli dice nella "Ginestra", possono vincere o almeno lenire il dolore.
Il pensiero del poeta marchigiano si evolve e si trasforma nuovamente. A chi lo accusa di proporre una visione del mondo senza alcuna speranza, Leopardi presenta una morale, una filosofia nuova, laica, che non si fonda sulle illusioni della religione o sui falsi miti del progresso ma sulla verità indicata dalla Ragione e sulla solidarietà.
L’uomo è una creatura fragile, destinata all’infelicità dalla natura che lo ha creato all’affanno; quello che l'uomo può fare, quindi, è non aggiungere altro male entrando in lotta con i suoi simili.
I conflitti, causati nella maggior parte dei casi per il possesso di beni materiali, sono, oltre che dannosi, anche inutili: infatti questi beni non risolvono in alcun modo il problema dell’infelicità mentre le guerre, le violenze, le distruzioni che ne derivano vanno ad accrescere il dolore e la disperazione. Il Vero e la Ragione, quindi, non sono più nemici dell’uomo ma, togliendogli l’illusione di essere al centro dell’universo e oggetto di un disegno divino, indicano una possibile via da percorrere: recuperare le virtù civili come la giustizia, la lealtà, la solidarietà, capaci di unire gli uomini nella lotta contro le avversità e di ripristinare l’equilibrio e l’armonia delle origini.