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A cura di Massimo Mannarelli

L'INFLUENZA DEL MONTE ATHOS SUL MONACHESIMO RUSSO


A diverse riprese uomini e istituzioni del Monte Athos influirono sullo sviluppo del monachesimo nei paesi slavi e particolarmente in Russia. Com’è noto, il popolo russo ricevette il cristianesimo da Costantinopoli quando, nel 988, il principe san Vladimiro e sant’Olga, sua nonna, furono battezzati con i loro sudditi e fu istituita la sede metropolitana di Kiev. Meno di un secolo dopo, verso il 1073, moriva il padre del monachesimo russo, sant’Antonio, fondatore della Lavra delle Grotte (Pecerskaja Lavra) presso Kiev. Egli si era formato all’Athos. Tuttavia la sua personale esperienza orientava la vita monastica in un senso più profondamente penitenziale, con un accento posto sulla peccabilità umana, che rimarrà caratteristico della spiritualità russa. All’Athos si era formato anche san Nilo Sorskij (1433-1508), profondo ed equilibrato esponente della spiritualità esicasta che, tornato in Russia, si oppose con l’esempio e con gli scritti al principio della proprietà terriera dei monasteri. Questo ideale di povertà non fu allora accolto dalle organizzazioni monastiche, ma rivisse più tardi, connaturale col radicalismo dello spirito russo.

Nel 1515 un dotto monaco di Vatopédi, Massimo il Greco (al secolo Michele Trivolis, 1470-1556 circa), fu chiamato dal gran duca di Mosca, Basilio III; per tradurre le opere ecclesiastiche dal greco in slavo. Massimo aveva studiato in Italia, era stato amico di Aldo Manuzio e discepolo del Savonarola. La sua cultura e la sua spiritualità, favorevole alle idee riformatrici di san Nilo Sorskij, urtarono contro la mentalità dominante nei centri di potere; così, dopo quindici anni di lavoro intenso, Massimo fu condannato come sospetto di eresia e incarcerato per ventidue anni in un monastero di Tver. Dopo la morte fu annoverato tra i santi della Chiesa russa.

Un altro erudito greco, monaco a Dionysìu e poi in un kellion della Grande Lavra, Nicodemo Aghiorita m. 1809, influì indirettamente sullo sviluppo successivo del monachesimo russo mediante una voluminosa opera di compilazione chiamata Filocalìa (amore per la bellezza), un’antologia di scritti di ascetica e mistica, dai più antichi monaci egiziani ai padri greci e ai teologi esponenti dell’esicasmo, fino a Palamas e a Nilo Cabasila. Stampata a Venezia nel 1782, essa divenne quasi la Bibbia della preghiera esicasta specialmente in Russia. Infatti, attorno allo stesso tempo, un monaco ucraino, Paisi Velickovski (1722-1794), dopo essere stato nel monastero Pantokràtoros e aver fondato la skiti di Sant’Elia, si stabilì con i discepoli in un monastero della Bucovina ed ebbe la felice idea di tradurre in slavo la Filocalia(Dobrotoliubie), che fu pubblicata nel 1793. La diffusione di quest’opera influì potentemente sulla rinascita monastica in Russia, con la valorizzazione della direzione spirituale da parte degli starcy (monaci anziani). Si rese famoso in quest’opera di guida verso la perfezione il monastero di Optina, a cui nel secolo scorso ricorrevano anche gli intellettuali russi tornati alla fede ortodossa. Tale era la figura dello starec Zosima (il suo vero nome era Amvrosi, Ambrogio), immortalata da Dostoevskij nel romanzo I Fratelli Karamazov. Si può vedere in azione la spiritualità della Filocalia nel libro, assai noto e incantevole per la sua semplicità, Racconti di un pellegrino russo.

Il monachesimo organizzato non appare prima dell’inizio del IV secolo, ma già fin dalle origini del cristianesimo vi furono singole persone che realizzarono la sequela di Cristo in modo radicale, con la rinuncia a costituirsi una famiglia, vivendo nella castità, nella povertà, usando le eventuali ricchezze ereditate in opere di carità a favore dei poveri della Chiesa. Queste persone erano chiamate “asceti” dal greco àskisis, che indicava l’esercitazione laboriosa degli atleti per conquistare la vittoria nelle gare. La vita cristiana veniva paragonata al lungo periodo di preparazione per conseguire il premio finale e quindi realizzata in un continuo progresso spirituale. Ciò tuttavia non comportava una fuga dal mondo.

La fuga apparve forse per la prima volta come programma di vita nella vicenda di sant’Antonio (250-356) che, sentendo leggere nel Vangelo le parole di Gesù “Va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi” (Matteo 19, 21), le mise letteralmente in pratica, ritirandosi a vivere in estrema indigenza tra il Nilo e il Mar Rosso. Ma non potè rimanere solo: la fama della sua santità attirò molti giovani generosi e nomini maturi, delusi dalle esperienze mondane che, cercando la sua direzione spirituale, si sistemarono nei dintorni in grotte e capanne. Così al difficilissimo e pericoloso ideale della vita solitaria, rimasta sempre nella pratica per alcuni, specialmente nei deserti di Siria, si sostituì una prima forma di vita associata: la lavra. Tuttavia rimase l’originaria denominazione di monaco (monachòs), “solitario”, e di anacoreta, “colui che si è ritirato” dal mondo. Attorno alla stessa epoca, un altro egiziano, san Pacomio (290-346), pensò che fosse più utile per il progresso spirituale dei monaci riunirli in comunità in un unico edificio, chiamato monastero, legati all’obbedienza di un unico superiore, con un comune orario giornaliero nel quale alla preghiera si alternasse il lavoro manuale per il mantenimento della comunità. Così nacque il cenobio (koinòbion, che ora si pronuncia kinòvion). Tale formula si propagò rapidamente in Egitto e in Palestina e giunse a Roma verso la metà del IV secolo. In Oriente la si riscontra nelle disposizioni ai monaci di san Basilio (330-379), alla quale più tardi in Occidente si ispirerà la Regola di san Benedetto (480-547). Le disposizioni basiliane applicate variamente nei monasteri, furono precisate nei particolari da san Teodoro Studita (759-826) per il monastero di Studion a Costantinopoli. E’ necessario aggiungere che in questi secoli la regola di un santo asceta non coincide con i suoi scritti come se questi fossero disposizioni legislative ma con la vita del santo. La regola in questo tempo non è, dunque, un codice di norme scritte come verrà sentito in Occidente molti secoli dopo. Ciò spiega la libertà con la quale, ancora oggi, vengono interpretate ed adattate le antiche disposizioni monastiche.

Sant’Atanasio, nella sua fondazione all’Athos, imitò da vicino la Regola di san Teodoro, non sopprimendo tuttavia la forma eremitica e il tipo di lavra che già esisteva sulla Santa Montagna. Tuttavia, sulla linea stabilita da San Basilio, collegava gli eremiti con un monastero, e disponeva che il superiore concedesse solo a pochi monaci, già sperimentati nella fedeltà alla vita comunitaria il privilegio di ritirarsi in un eremo a fare vita solitaria di preghiera e penitenza.

Nell’Athos sussistono contemporaneamente le tre fasi dello sviluppo storico del monachesimo: l’eremitismo in capanne talora isolate sulla montagna, nascoste e raggiungibili con difficoltà; la vita parzialmente associata in molte kalivi e kellia; la vita comunitaria nei monasteri e nelle skiti.

Il monachesimo dell’Athos, come generalmente quello orientale, è rimasto fedele allo scopo primigenio della vita monastica. In Occidente la vita religiosa associata si è adattata a seguire un mondo ormai non più statico con la nascita degli ordini mendicanti che completavano o supplivano il clero secolare. Poco alla volta queste comunità religiose divennero prevalentemente sacerdotali. Il fenomeno della clericalizzazione degli ordini raggiunse il suo apice nel periodo barocco e non risparmiò neppure i benedettini, unici in Occidente a meritare correttamente il titolo di monaci. Contrariamente a ciò, in Oriente e, in modo speciale nell’Athos, gli “ieromonaci”, cioè i monaci sacerdoti, e gli “ierodiaconi”, i monaci diaconi, sono molto pochi: il loro numero è indispensabile per la celebrazione della Divina Liturgia e per amministrare i sacramenti a servizio della comunità monastica. Questa scelta coincide con lo scopo originario del monaco la cui vita non è espressamente dedicata all’apostolato in una parrocchia o nelle missioni, ma alla santificazione personale rinunciando a quanto potrebbe impedire o ritardare l’unione con Dio. Normalmente si dice che lo scopo dei cristiani è comune. Tuttavia se coloro che vivono nel mondo tendono a Dio come chi salendo su una montagna ne percorre la strada, il monaco lo fà come chi scala la montagna stessa. Ecco perché il monaco vive nella castità e nella povertà, nell’astinenza e nel digiuno, ma specialmente nell’umiltà. Quest’ultimo motivo lo spinge a considerarsi un “servo inutile” (Luca, 17, 10), anche se tutta la sua vita fosse tesa a servire Dio. A questo nel cenobio si aggiunge la rinuncia alla propria volontà con la sottomissione agli ordini del superiore e alle esigenze comuni. In queste condizioni si realizza una vera comunità, praticando il servizio del prossimo, la carità fraterna e la pazienza, virtù irrinunciabile là dove vivono assieme parecchie persone. Quanto alla vita intellettuale, non rientra negli scopi del monaco. In Oriente, come nel medioevo occidentale, i monasteri furono la salvezza degli antichi tesori della letteratura classica e patristica, ma ciò non rientra nella finalità della vita monastica, ma al fatto che, tra i lavori manuali assegnati ai monaci, vi era anche quello di ricopiare i manoscritti. Tuttavia, a differenza dell’Occidente, durante la progressiva cristianizzazione dei barbari dopo il crollo di Roma imperiale, in Oriente sopravvisse fino al XV secolo la raffinata cultura romano-bizantina, con le sue scuole imperiali e vari ambienti culturali. Solo dopo la caduta di Costantinopoli, la Chiesa e i monasteri dovettero supplire allo stato cristiano che non esisteva più, salvando con la fede ortodossa i valori dell’antica cultura come pure il sentimento nazionale.

La vita monastica è, in primo luogo, ascetismo che non è fine se stesso dal momento che lo scopo è la vita mistica la quale, secondo i maestri della vita spirituale, irrompe in forza della grazia, cioè di un dono divino, quando la purificazione dei sensi, della fantasia e dell’intelligenza abbia lasciato via libera all’azione del Santo Spirito. Si tratta di un’esperienza spirituale, che i maestri si sono sforzati di descrivere, ma che non può essere compresa se non da chi l’ha provata. Infatti essa non è sul piano di una teoria, che può essere spiegata concettualmente, ma sul piano esistenziale di un contatto personale con Colui che sta al di là delle nostre fantasie e dei nostri concetti. Molti all’Athos hanno raggiunto questa esperienza, ma essa resta il loro segreto; nulla ne appare all’esterno se non, forse, un riflesso in quella semplicità, dolcezza, mitezza e quasi trasognata serenità, che si riconosce nello sguardo di qualche umile monaco.

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