I GRADI DELLA PROFESSIONE MONASTICA NEL MONTE ATHOS
Vi sono all’Athos, come negli altri monasteri ortodossi, tre gradi di professione monastica. Il laico che desidera diventare monaco assiste agli uffici ed è adibito a qualche lavoro. Dopo tre mesi riceve l’abito monastico: una veste talare nera (antérion) allacciata al collo e tenuta aderente alla persona da una cintura di cuoio (zoni); come copricapo lo skufos, un berretto cilindrico, il quale differisce da quello del clero secolare (kalimavchion) perché più basso e senza l’orlo sporgente nella parte superiore. Dopo altri tre mesi può indossare il rason, ampio e leggero soprabito nero con maniche larghissime, comune a ogni grado monastico ed ecclesiastico. Tuttavia questo abito diventa definitivo quando, dopo due o tre anni, il novizio, che ha dato buona prova di sé, non in un noviziato ma nel monastero comune, affidato alla cura spirituale di un monaco anziano, viene finalmente ammesso al primo grado, quello di rasofòros (portatore del rason). Mediante una breve funzione liturgica, e cioè dopo alcune preghiere, il novizio riceve la tonsura, il rason e lo skufos. Quanto alla tonsura, si noti che essa rimane solo come un rito, segno della rinuncia alle vanità del mondo, ma in realtà il monaco si lascia crescere barba e capelli a imitazione degli antichi eremiti. Le lunghe capigliature, annodate dietro la nuca, godono in epoca moderna minore stima, specie nel clero secolare, ma la barba è assolutamente di regola. Il rasoforo non è ancora legato in modo definitivo alla vita monastica e al suo monastero; tuttavia può rimanere tale per tutta la vita.
In genere dopo alcuni anni, da cinque a dieci, il rasoforo viene ammesso al secondo grado, quello di stavrofòros (portatore della croce). Questa professione monastica avviene durante la Divina Liturgia. L’igumeno impone al monaco lo schima (o piccolo abito): è un quadrato di stoffa con la figura della croce e altri simboli sacri, che si porta sulla persona sotto la veste. In seguito il monaco tocca il libro del vangelo, riceve il libro delle regole monastiche, e gli viene praticato ancora il rito della tonsura. Segue la consegna degli abiti monastici, cioè del rason, del mandyas, un largo manto nero per i monaci e viola con linee bianche per i vescovi, un velo nero che copre lo skufos, chiamato epanokalymavchion. Tale velo nel clero secolare è proprio solo dei vescovi e dei dignitari (archimandriti), i quali, anche senza vivere in un monastero, rimangono celibi e fanno la professione monastica. Alla fine gli viene consegnata una candela accesa e una croce di legno, che il monaco avrà sempre con sé caratterizzandolo con il titolo di stavroforo. Il monaco stavroforo è legato per sempre alla vita monastica e al suo monastero.
Il terzo grado è quello del “grande abito” (megàlo schima). Solo dopo molti anni di vita monastica esemplare lo stavroforo può accedere al grado dimegalòschimos. Il rito, alquanto solenne, comprende ancora la tonsura e la consegna degli abiti monastici, da ultimo l’abito caratteristico di questo terzo grado, il “grande abito”, chiamato anche analavos. E’ una specie di scapolare che scende sul davanti come una stola, ornato con una croce e con i simboli della Passione (spugna, lancia e iscrizioni varie. Presso i russi esso è completato da un cappuccio ornato di croci. Lo si porta sempre sopra gli altri abiti monastici, ma solo in determinate occasioni. Il monaco megaloschimos partecipa alla vita della comunità come consigliere e guida spirituale, ma è dispensato dai lavori manuali.
Il cenobio rappresenta l’organizzazione monastica più perfetta, ha una costituzione, per così dire “monarchica”, avendo a capo l’igumeno (igumenos), che dura in carica per tutta la vita. Viene eletto da tutti gli stavrofori e i megaloschimi del monastero in due sedute: nella prima si designano i più degni d’essere eletti, nella seconda a scrutinio segreto si elegge il nuovo superiore.
L’igumeno esercita la sua autorità con l’assistenza di tre epitropi (procuratori) e di un consiglio di otto anziani. Nel monastero cenobitico tutto è comune, anche gli abiti che ciascuno porta oltre alla preghiera liturgica e alla mensa. L’igumeno non ha alcuno sopra di sé. Neppure il protepistàtis, capo di tutta la confederazione monastica, ha la precedenza sull’igumeno quando visita il monastero. Tuttavia l’arbitrio dell’igumeno è minimo, delimitato com’è dal regolamento; per l’assegnazione degli incarichi hanno responsabilità anche gli anziani del consiglio e gli epitropi. Questi hanno una grande importanza per le mansioni amministrative. Si occupano dei bisogni del monastero e amministrano i beni della comunità. Tra le particolari incombenze affidate al monaci ricordiamo le più importanti:pyloròs o portàris, il portiere; archcondaris, l’addetto alla foresteria (archondarikion) che accoglie gli ospiti e si prende cura di loro; kodonokrustis o kambanàris, il campanaro o più spesso l’incaricato di battere con un martello ilsimandron, di legno se recato in mano, di ferro se sospeso. Tale strumento segna l’inizio delle funzioni sacre e delle riunioni per la mensa o per altri scopi. Esiste poi l’ekklisiastikòs, il sacrestano; l’anaghnòstis, il lettore. Costui è ordinato con un sacro rito per leggere in chiesa i passi biblici (ad eccezione del Vangelo che è riservato al diacono o al sacerdote) e, nel refettorio, leggere le vite dei santi o altri libri spirituali. I monaci lettori sono anche cantori, perché tutti gli uffici che si recitano in chiesa sono accompagnati dal canto. L’elenco degli incarichi prosegue con ilvivliofylax, il bibliotecario; lo skevofylax il conservatore del tesoro nel quale si custodiscono i cimeli, le icone antiche e i paramenti preziosi. Altri incaricati attendono a servizi meno nobili ma non meno necessari: il trapezàris, l’addetto al refettorio; il maghiras, il cuoco; il dochiàris il cantiniere; l’arsanàris, l’addetto al piccolo porto (arsanàs) del monastero; il vadonàris, l’addetto ai trasporti e alle stalle dei muli. Come si vede, il cenobio è concepito come una comunità autosufficiente. Infatti altri monaci lavorano attorno alle coltivazioni (orti, vigneti, uliveti) e sorvegliano o eseguono le provviste di legname nei boschi del circondario. In tal modo, il monastero arriva anche a esportare vino, olio, legname, procurandosi in cambio i generi che non si possono trovare sul posto. Un’ultima caratteristica dello statuto cenobitico, a differenza di quello idiorritmico: nel cenobio non si mangia mai carne, neppure a Pasqua.
Caratteristiche del monastero idiorritmico (idios, proprio, privato; rythmòs, ordine regola) sono il permesso della proprietà privata ai monaci e la vita in gruppi o famiglie monastiche distinte, benché alloggiate nello stesso monastero e riunite in preghiera nella stessa chiesa centrale. La famiglia monastica è composta da cinque o sei monaci attorno a un presidente (proestòs) il quale, come un padre di famiglia, ha il peso finanziario di mantenere i suoi monaci. Il monastero fornisce pane e farina, vino, olio, legna; il presidente deve pensare al resto. Ciò spiega come possa formarsi una famiglia di questo tipo: da una parte il presidente deve avere personalmente dei mezzi e quindi cercare tra i novizi e i monaci liberi chi vuol fare vita monastica sotto la sua presidenza; d’altra parte i novizi o i monaci liberi scelgono un presidente di loro gradimento per mettersi sotto il suo patronato. Naturalmente non vengono mantenuti a ufo; fanno i lavori che il presidente dispone per il buon andamento della famiglia, ma ricevono anche un piccolo salario che mettono da parte e di cui si serviranno liberamente. Nel tempo disponibile possono dedicarsi a qualche lavoro di artigianato e guadagnare qualche cosa dalla vendita dei prodotti di tale lavoro, in genere oggetti religiosi, arredi, piccole icone, incensi pregiati, eccetera.
Ogni famiglia monastica vive in un appartamento proprio: il presidente occupa le camere che vuole e le arreda anche con proprietà ed eleganza e alloggia i suoi monaci nelle rimanenti camere, lasciando alla loro fantasia di arredarle come vogliono. Ogni famiglia ha la sua cucina e il suo refettorio. Nel refettorio comune, di solito grandioso e ornato di affreschi, le varie famiglie si radunano solo tre volte all’anno in occasione delle grandi feste. Ogni monastero conta da tre a dodici famiglie. Non esiste l’igumeno né un’autorità di tipo personale. L’autorità centrale, unico legame tra le famiglie dello stesso monastero, è costituita dal consiglio di tutti i presidenti delle singole famiglie. Naturalmente anche questo consiglio ha un suo presidente (proistàmenos), che viene eletto dai membri del consiglio e deve essere approvato dal consiglio generale di tutti i monasteri dell’Athos (Sacra Comunità o Antiprosopia). Egli ha il titolo di dikeos (giusto), e tutte le prerogative onorifiche dell’igumeno, ma nessun potere che rientra completamente come prerogativa del consiglio. Il consiglio nomina il padre spirituale (pnevmatikòs) che è il confessore di tutto il monastero; decide sull’ammissione agli ordini sacri (diaconato, sacerdozio) dei monaci appartenenti al monastero. Nomina anche l’economo, amministratore dei beni del monastero, che praticamente sbriga anche le compere per incarico dei singoli presidenti; nomina i sacrestani, perché la chiesa e le cappelle sono in comune, nominando pure l’archondàris, l’addetto alla foresteria, dato che l’ospitalità viene esercitata a nome e a spese di tutto il monastero. Il consiglio decide dell’espulsione di un monaco, se si rende necessaria, ma non dell’accettazione che è prerogativa del presidente che lo prende a carico.
Il candidato, che ha trovato un presidente che lo accetta nella propria famiglia, fa un noviziato di due o tre anni, occupato nei lavori materiali e nella lettura di libri ascetici, con la frequenza regolare alle preghiere comuni. Terminato il noviziato diventa stavroforo con l’approvazione del consiglio. Egli resta però legato al monastero solo per propria volontà. Potrebbe diventare un monaco libero, ma allora dovrebbe provvedere personalmente a tutte le sue necessità, ricevendo dal monastero solo l’abito. La vita comune si svolge nell’ambito della famiglia monastica, tranne che per gli uffici liturgici, celebrati da tutte le famiglie riunite. Il presidente della famiglia non è necessariamente un sacerdote. A questo proposito si noti che i monaci sacerdoti (ieromonaci) o diaconi (ierodiaconi) non hanno nessuna precedenza sugli altri monaci, ma ricevono il medesimo trattamento, ciò in tutti i monasteri, cenobitici o idiorritmici.
Se all’Athos si trova un vescovo come ospite temporaneo o in ritiro definitivo, egli non ha alcuna autorità sui monasteri. Potrà presiedere le celebrazioni liturgiche nelle solennità maggiori; potrà anche essere designato dalla Sacra Comunità per le ordinazioni dei sacerdoti e dei diaconi, ma non spetta a lui interferire nella vita dei monasteri.
Quanto all’autorità spirituale del patriarca di Costantinopoli, che è il capo gerarchico dell’Athos, essa si esercita mediante l’Exarchia, un consiglio di tre metropoliti. Talvolta il patriarca interviene mandando un éxarchos(delegato) straordinario, un metropolita a ciò designato con altri sacerdoti, allo scopo di visitare i monasteri, informarsi sul loro funzionamento, convocare la Sacra Comunità per risolvere le questioni pendenti e comunicare le disposizioni del patriarca. Come già abbiamo notato, nonostante l’opinione della gerarchia e degli intellettuali ortodossi sfavorevole allo statuto idiorritmico, ben sette monasteri, anche tra i più importanti, praticano tuttora l’idiorritmia: Grande Lavra, Vatopédi, Iviron, Chilandàri, Pantokràtoros, Xiropotàmu, Dochiariu.
Un altro punto dove i monaci dell’Athos non temono di mettersi in contrasto con le direttive del patriarcato consiste nella difesa dell’ortodossia. A tal proposito criticano apertamente l’ecumenismo quale sorgente d’indifferentismo religioso. In questa linea, nell’aprile del 1980, la Santa Assemblea (Synaxis) della comunità della Santa Montagna, in sessione straordinaria, emanò una “Dichiarazione” al patriarca e a tutto il mondo ortodosso denunciando l’errore e il pericolo insito nelle relazioni della Chiesa ortodossa con gli eterodossi e particolarmente nel dialogo con i cattolici romani. La Dichiarazione afferma che “il dialogo con gli eterodossi può solo avere lo scopo di illuminarli, perché possano ritornare alla vera fede. Ma il dialogo teologico non può assolutamente accompagnarsi con preghiere comuni, ciò che potrebbe dare l’impressione che la nostra Santa Chiesa Ortodossa riconoscerebbe i cattolici romani come formanti una Chiesa nel senso pieno e il papa come il vescovo canonico di Roma”. Naturalmente questo tipo di affermazioni non negano quegli elementi di valore che possono esistere all’interno delle altre confessioni cristiane. Ma quest’aspetto è riscontrabile soprattutto nel dialogo diretto con ogni monaco.