VIMALA THAKAR. INNAMORATA DELLA DIVINITA' DELLA VITA UMANA
“Sono una persona semplice, un essere umano che ha amato la vita, considerandola divina. Sono stata innamorata della vita, pazzamente innamorata della divinità della vita umana!”
Ecco la frase che emblematizza il pensiero e la vita di questa maestra, nota figura spirituale che ha viaggiato per il mondo insegnando per più di trenta anni. La sola persona alla quale risulta che J.Krishnamurti abbia mai chiesto di andare a insegnare. Una donna che non desidera essere pubblicata e fotografata, affermando «Sono socialmente morta».
Un’altra sua frase che la sintetizza è: «Lasciatemi vivere come un’insegnante invisibile, non come un maestro, ma come un’insegnante. Ho cercato di creare un modello di rapporto tra il ricercatore e l’illuminato che fosse fondato su basi egualitarie. Si tratta di un tentativo rivoluzionario. Tutta la mia vita è stata una condivisione, come membro di una famiglia spirituale, sulle basi dell’amicizia e della collaborazione».
La sua storia, come quella di molte guide spirituali, è straordinaria. Come lei stessa racconta la sua ricerca spirituale inizia insolitamente presto, all’età di cinque anni. Nata da una famiglia bramina in India, vedeva la madre venerare Dio e si chiedeva: «Come può Dio essere quella cosa minuscola, una statua?». Interrogò allora la nonna, che le disse che Dio viveva nella foresta. Fuggì allora verso la foresta, cercando Dio e implorandolo di rivelarsi.
Il padre, nonostante fosse un razionalista convinto, fin dalla più tenera età di lei, ne intuì le inclinazioni e la incoraggiò ad andare negli ashram e a visitare tutte le più note figure spirituali; lui stesso organizzava questi viaggi (fossero tutti così i genitori!!!). In famiglia, la spiritualità era accettata: suo nonno era stato un grande amico di Swami Vivekananda.
Per qualche tempo visse nelle grotte, facendo dei ritiri, sperimentando la concentrazione e altre pratiche. Entrò, poi, nel Bhoodan Movement – il “Movimento del dono della terra” di Vinoba Bhave, che incoraggiava i ricchi proprietarie terrieri a condividere volontariamente la terra con i poverissimi.
Girò l’India tenendo incontri pubblici e proprio durante uno di questi viaggi, nel gennaio del 1956, incontrò Krishnamurti. I discorsi di questo grande uomo ebbero un effetto molto potente su di lei e la portarono ad avviare dei colloqui privati con lui che influenzarono a tal punto la sua coscienza da farla entrare in un silenzio profondo.
Successivamente a questi incontri decise di abbandonare il suo lavoro con il “Movimento del dono della terra”.
Nel 1959, cominciò ad avere terribili e insopportabili dolori a un orecchio, con perdita di sangue e febbri. Un’operazione chirurgica non portò risultati e verso la fine del 1960 era rassegnata a morire, sebbene allo stesso tempo si sentisse completamente calma.
La sua ultima speranza era un viaggio in Inghilterra per consultare degli specialisti sull’orecchio. A questo punto incontrò di nuovo Krishnamurti, che le offrì il suo aiuto segnalandole che secondo sua madre, egli aveva un potere curativo nelle mani. Dopo alcune riflessioni lei accettò l’offerta: febbri e perdite ematiche cessarono e lei si sentì finalmente libera dal dolore. Dopo alcune sessioni l’udito tornò alla normalità.
Trascorse, quindi, del tempo con lui nella dimora svizzera di Gstaad. Emblematiche sono le parole che scrisse ai suoi amici e colleghi del “Movimento del dono della terra” per spiegare i motivi che l’avevano indotta ad andarsene: “Non ci sono parole per descrivere l’intensità e la profondità dell’esperienza che sto attraversando. Tutto è cambiato, sono rinata. Non si tratta di un’illusione né di una reazione sentimentale alla guarigione. È un fenomeno stupefacente…Tutto quello che è stato trasmesso alle nostre menti attraverso i secoli deve essere scartato…L’ho conosciuto bene e so che va abbandonato.”
Vimala andò a Benares per incontrare Krishnamurti nel 1961. Le chiese che cosa avesse fatto, e lei rispose che aveva passato la maggior parte del tempo parlando della sua vita con alcuni amici.
«Questo è naturale», egli replicò; «ma perché non esplodi? Perché non metti delle bombe sotto tutte queste vecchie persone che seguono il percorso sbagliato? Perché non vai in giro per l’India? C’è forse qualcuno che lo fa? Se ce ne fosse una mezza dozzina, non ti direi una parola. Ma non lo fa nessuno…C’è così tanto da fare. Non c’è tempo…Vai e urla dai tetti delle case: “Siete sul sentiero sbagliato! Questa non è la via per la pace!”…Vai e infiammali! Non c’è nessuno che lo sta facendo. Neanche uno…Che cosa aspetti?».
Questa conversazione la colpì profondamente, ma sentiva anche che “mettere le bombe sotto la gente” non era tutto. Si rendeva conto che bisognava mostrare alla gente la giusta linea d’azione ed evidenziare il modo di ricostruire la casa. I successivi colloqui con lui la convinsero e fugarono i dubbi che la stavano trattenendo; per esempio, l’idea che avrebbe dovuto avere uno stile oratorio personale prima di affrontare il pubblico e la paura di fare errori. Questo fu un momento importantissimo, in cui, per usare le sue parole: “Le ceneri ardenti si trasformarono in fiamme”.
Da quel momento cominciò a viaggiare e tenere discorsi nei vari paesi d’Europa dove fu invitata.
Da allora, s’incontrò con Krishnamurti di quando in quando, ma avvertì che il bisogno di passare del tempo con lui era finito, “come se volessi solo incontrare una persona lontana”. Fin dal 1962 aveva percepito la presenza di Krishnamurti dentro di sé. Da quel momento in poi, trascorse la vita viaggiando in tutto il mondo, tenendo discorsi, insegnando dovunque fosse invitata, fino al 1991, quando decise di fermarsi in un posto.
Di seguito lasciamo alle parole di questa grande maestra il compito di ispirarci.. sicuramente qualcosa che ci toccherà lo troveremo:
“Mio caro amico, essi non dedicano la vita alla verità che hanno compreso. Desiderano i piaceri mondani, il riconoscimento del mondo. La spiritualità è uno dei desideri. Non è la priorità assoluta. Comincia a vivere immediatamente la verità che hai compreso! Intellettualmente, le persone possono aspirare all’emancipazione o all’illuminazione, ma emotivamente amano essere circondate da piccole schiavitù. Vanno avanti a tessere la rete delle schiavitù. Vogliono appartenere emozionalmente a qualcosa, come la famiglia o la religione”.
“Nel nome della sicurezza, creano questi vincoli emozionali e un senso di appartenenza esclusiva, mentre intellettualmente aspirano all’assoluta libertà, all’illuminazione. Come possono le due cose stare insieme? Sono incompatibili, ma gli esseri umani che diventano sadhakas, ricercatori, vivono una doppia vita. Non sono disonesti; mi riferisco a una divisione interiore. Si accontentano di sapere che la liberazione esiste, di leggere qualcosa al riguardo e di immaginarla. Sono soddisfatti di questo perché la parola “liberazione” ha una sua tossicità, l’emozione connessa al significato di questa parola è intossicante. E loro vivono di questa intossicazione, senza avere realizzato nulla di concreto. Questa divisione interiore, quindi, causa quella penosa sensazione di trovarsi a mani vuote sul finire della vita. Hanno soltanto gli involucri delle parole, non la sostanza interiore della liberazione».
«Bisogna educare se stessi. Prima si scopre la divisione dentro di sé, poi, per eliminare questa divisione, deve avvenire una purificazione grazie all’educazione, perché l’impurità è il solo squilibrio. Educare, sensibilizzare, raffinare e purificare gli aspetti biologici e psicologici del nostro essere… A quel punto, credo che la divisione interiore scompaia». Il suo consiglio è che i ricercatori dedichino un minimo di tre, preferibilmente quattro ore al giorno alla propria pratica spirituale.
Sul tema degli attaccamenti ci dice: «Se l’attaccamento non può essere dissolto dalla comprensione della verità, tale comprensione è solo verbale. Se l’hai ottenuta, come può esserci attaccamento?».
«Anche dopo aver compreso la verità, alcuni possono rimanere attaccati alle falsità per amore del piacere o della sicurezza. La gente ha paura di vivere, ha paura di morire. L’aspirazione intellettuale alla verità c’è, ma esiste anche questa paura della vita e della morte. Ecco perché non ne consegue l’abbandono degli attaccamenti. In quel caso, la persona dovrebbe almeno essere cosciente della presenza di una dualità in lui o in lei; dovrebbe comprendere che la verità è presente a un livello, ma che esiste anche l’attaccamento. Se c’è un desiderio autentico di dissolvere ed eliminare l’attaccamento, se c’è questa coscienza, essa funzionerà come un pungolo. Lo terrà sveglio. Ci sarà l’attaccamento, egli agirà a partire dall’attaccamento, ma poi si sentirà dispiaciuto per questo. Ciò va avanti per un certo tempo; sarà qualcosa di graduale. Dipende dalla serietà».
“Dopo la scoperta della verità… con quel profumo interiore della consapevolezza costante che la vita è una danza tra il manifesto e il non-manifesto, il limitato e l’illimitato, il misurabile e l’incommensurabile, ti relazioni con entrambi. Tramite la consapevolezza, sei in rapporto con l’assoluto; tramite il corpo, la mente e il pensiero, sei in rapporto con il relativo. Il relativo e l’assoluto non sono opposti, non c’è dicotomia.
Il mondo limitato e la verità assoluta insieme formano la totalità della vita. La vita è indivisibile, non puoi frammentarla né dividerla. Non c’è problema, quindi, a relazionarsi con il mondo limitato. La deformità, la violenza le vedi come sono e ci entri in relazione. Non devi cooperare con la violenza, ma scoraggiare l’odio, la possessività, il dominio. Devi incoraggiare la psicologia della condivisione, l’attitudine alla cooperazione, il valore dell’amicizia. Lo fai con la tua vita, lo fai vivendo».
“La verità deve essere vissuta nella dinamica delle relazioni, non può essere vissuta nell’isolamento fisico. Quest’ultimo può essere apprezzato, se ne può parlare, ma non è la vita. Vivere è essere in relazione, e quando a quella verità è permesso di esprimersi senza paura, senza ambizione, senza il desiderio di asserire e dominare, quando alla verità è permesso di fluire nelle dinamiche delle relazioni, avviene il compimento che chiami illuminazione. È il completamento. È facile percepire la verità, ma è molto difficile permetterle di consumarsi nella nostra vita. È come un matrimonio non consumato».
“Nella spiritualità non c’è niente da acquisire; c’è solo da comprendere e vivere la verità. Quando indaghi con onestà, la verità si rivela. L’Io ha tutto da perdere e nulla da guadagnare. E in quel sacro nulla e nessuno, la totalità viene rivelata. Così se i ricercatori (coloro che vivono insieme in una sangha) realizzano che la spiritualità non è un movimento volto al possesso, ma un meccanismo di apprendimento, tutto diventa facile. Questo approccio alla spiritualità determinerà nuove dinamiche nelle relazioni umane»