IL MITO INDOEUROPEO ALL'INTERNO DEL SANATANA-DHARMA
Con la locuzione Sanatana-dharma non ci si riferisce ad una religione particolare, ma ad un insieme di prospettive sulla Realtà accomunate da una conoscenza cosmogonico-metafisica basata sull’esperienza diretta e da una particolare sensibilità che Max Müller tentò di riassumere nel termine “enoteismo”. José Pereira, nel suo “Manuale delle Teologie Induiste”, indica tre forme teologiche fondamentali: della Differenza, della Differenza-nella-Identità, dell’Identità, sostenendo, con ragione, che la teologia del Sanatana-dharma è tricotomica, poiché le include tutte. Lo studioso Giuseppe Gorlani afferma che: “Il termine “hinduismo”, impiegato comunemente, venne coniato dagli invasori islamici e in seguito, nell’Ottocento, i colonialisti inglesi ne fissarono definitivamente l’uso. Trattasi di un’espressione di natura geografica (indicante genericamente gli abitanti della Valle dell’Indo), nella quale, almeno sino a poco tempo fa, quei popoli non si riconoscevano. A dire il vero, neppure la locuzione Sanatana-dharma sarebbe del tutto appropriata per definire la tradizione indiana.
Jagadguru Sri Chandrasekharendra Sarasvati in un articolo intitolato “Dharma Hindu” scrive: «Ultimamente è stato molto usato il termine Sanatana-dharma, ma neanche questo si può dire che sia esattamente il nome tradizionale della nostra religione, poiché in tal caso dovrebbe essere conosciuto anche dal povero contadino e dall’umile vedova, come avviene per le altre religioni create dall’uomo. [...] La vera grandezza della nostra fede consiste nel fatto di non avere un nome». Essa è una religio eterna priva di un nome specifico e le cui origini si perdono nella cosi detta “notte dei tempi” poiché non vi è alcun fondatore, umano o divino.
Considerare il Sanatana-dharma semplicemente come una tradizione “vedica” è assai riduttivo, poiché essa include popoli che hanno punti di riferimento diversi; Shiva, per esempio, è una divinità pre-ariana e pre-vedica, della quale si hanno i primi segni in India già dal VI millennio prima della nostra era. Secondo Evola, il Dharma eterno venne portato in India dai popoli ariani di razza bianca, originari del nord, latori di una visione spirituale virile, olimpica, secca, i quali incontrarono nella Valle dell’Indo e nelle vaste pianure gangetiche i popoli dravidici autoctoni – che i Veda chiamano dasa o dasyu –, di razza scura, di natura “mistica”, dalla forte immaginazione, propugnatori di dottrine panteistiche e universalistiche e organizzati secondo strutture sociali matriarcali. Tuttavia la questione, come spiega Gorlani, non è così semplice; secondo Alain Daniélou, che visse in India tre lustri e fu noto adepto dello shivaismo, gli ariani erano poco più che orde illetterate di pastori e di nomadi barbari calati dal nord e dunque: «[...] era inevitabile che lo sviluppo della cultura ariana si fondasse quasi esclusivamente sulla letteratura storica, religiosa e scientifica dei loro predecessori». L’India a tutt’oggi sconosciuta è quella dei Purana (fonti spesso sottovalutate dagli occidentali perché considerate di matrice popolare) che vennero tradotti in sanscrito, non si sa da quali lingue, in epoca piuttosto tarda. “Essi” continua Danielou, “rappresentano l’antica tradizione, comune a tutta la popolazione indiana, che non solo è riuscita a sopravvivere all’invasione ariana, ma che successivamente l’ha anche assimilata. [...] Tutto lo svolgimento del pensiero sanscrito poggia su fonti pre-sanscrite”. Si noti come gli ariani avessero una tradizione orale, ma non conoscessero la scrittura, che appresero dai dravidi. Il sanscrito è in realtà una lingua artificiale che venne elaborata su basi linguistiche pre-esistenti (vedico e pracriti) per prendere il posto delle lingue pre-ariane più antiche, creando così un punto di coesione tra il mondo pre-ario e quello ario. Daniélou, nella sua “Storia dell’India”, nota come l’apporto dato al cosiddetto Hinduismo dai popoli autoctoni sia senz’altro superiore a quello dato dalle tribù ariane: “Sul piano della religione e della filosofia, gli Arii adottarono gli dèi e soprattutto le idee, la cosmologia, la metafisica degli antichi Indiani. È da questa influenza che nacquero i testi filosofici denominati Upanishad e i riti dell’Hinduismo. Molti dei saggi menzionati nei testi più tardi dei Veda e nelle Upanishad sono antichi profeti o filosofi degli Asura, uomini dalla pelle nera, rappresentati in un primo tempo come demoni, ai quali successivamente si riconobbe una dignità pari a quella dei profeti arii”. E ancora: “La religione vedica assorbì, incorporò e preservò le forme e i riti degli altri culti. Invece di distruggerli, essa li adattò ai propri bisogni. Prese in prestito talmente tanto dai Dravidi e dalle altre popolazioni indigene dell’India che è molto difficile separare dagli altri elementi gli antichi elementi ariani”. Gorlani fa notare che secondo questa prospettiva, Evola, se da un lato ha ragione a contrapporre le concezioni di tipo moderno alla visione tradizionale, erra nell’opporre drasticamente tra loro: “le creazioni schiette di uno spirito e di un sangue ario e quelle che invece, in Oriente come in Occidente, hanno risentito di influenze non arie”. Ogni razza è sicuramente portatrice di particolari caratteristiche spirituali, non lo si può negare, e in India questo si è sempre saputo; il destino o dharma del Bharatavarsha è stato, infatti, quello di tentare di preservare il più possibile le varie identità etniche e razziali, permettendo però loro di riconoscersi ed armonizzarsi in una sorta di ortoprassi fondata sulla verità metafisca enunciata nelle Upanishad. Nel caso invece degli ariani (da qualunque parte essi provenissero) e dei dravidi c’è stata nel corso dei millenni una tale integrazione a tutti i livelli che ormai è inattuabile la pretesa di distinguerli in modo categorico. Lo scontro-incontro tra la religiosità ariana e quella dravidica e l’imporsi, per certi versi, di quest’ultima sulla prima si riflette nel mito del sacrificio di Daksha, epifania di Brahma. Daksha non amava Shiva, pur avendogli dato in sposa la figlia Sati, poiché lo considerava un dio lubrico, impuro, non osservante dei riti e selvaggio. Perciò, quando Shiva non si alzò al suo arrivo al sacrificio del Prayaga, lo maledisse e lo escluse dal Sacrificio. A causa di ciò, Sati, che in Shiva vedeva la natura di Parmeshvara, fu presa da vergogna e si arse nel fuoco yogico da se stessa suscitato. Shiva allora distrusse il sacrificio, decapitò Daksha, uccise tutti gli altri partecipanti e mutilò gli dèi. “Dopo che Virabhadra (il guerriero, personificazione dell’ira di Shiva, a cui si ispira e collega la omonima asana nella pratica yoga) ebbe distrutto il sacrificio, Shiva stesso si levò dalla fossa sacrificale, e Daksha lo venerò con un inno che celebrava i milleotto nomi del Signore”. In questo mito Shiva rappresenterebbe la spiritualità dei dravidi e Daksha quella degli arii. Scrive ancora Daniélou, in un’altra sua importante opera: «Lo Shivaismo era stato per secoli una religione perseguitata, presentata come la religione degli anti-dèi e dei demoni. [...] Dopo secoli di dominazione ariana, tuttavia, il rituale vedico e la connessa filosofia erano stati talmente pervasi dalla saggezza degli antichi asura, che erano stati profondamente trasformati. La differenza tra pensiero ariano e non ariano era diventata così esigua che fu facile far posto apertamente ad aspetti del culto di Shiva per i quali i primi ariani avevano ostentato orrore e disprezzo». Gorlani chiarisce nel suo scritto (da cui provengono le fonti di questo articolo) “Julius Evola e la tradizione del Sanatana-dharma” che chiunque sia penetrato in profondità nella conoscenza della cultura e della religiosità indiane sa che le iniziazioni shivaite sono le più elevate. Evola lo ammette nel suo notevole studio “Lo Yoga della Potenza”, ma, considerando Shiva già contenuto in nuce nel dio vedico Rudra, non ne trae le debite conseguenze. Tra l’altro, “Rudra potrebbe essere stato, in origine, una divinità prevedica, come indica un inno a lui rivolto nell’Atharva-veda (XI.2, 1-17)”. Per uno shaiva, comunque, Rudra e Shiva sono i due volti, irato e pacifico, del medesimo dio. Shiva è il dio imprescindibile, poiché dona agli uomini del Kali-yuga – il cui dharma e la cui intelligenza si sono ridotti dei tre quarti – lo Yoga, la prospettiva tantrica, la cosmogonia Sankhya e la metafisica realizzativa non dualista. Egli, in quanto Dakshinamurti, presiede al nivritti-marga, la via di riassorbimento dell’ente nella sua più intima verità non-duale e, in quanto Paramashiva, è assimilabile al Brahman nirguna che contiene e trascende Ishvara (nei suoi tre aspetti, Trimurti) e la sua Shakti. Inoltre, non soltanto Shiva apparteneva alla spiritualità pre-aria, bensì pure Krishna, Rama e la Devi dalle molteplici manifestazioni (Durga, Kali, Parvati, ecc.), tutte divinità al cui culto è dedita la maggioranza della popolazione indiana attuale. Osserva bene il grande studioso italiano Giuseppe Tucci: “Ai nostri giorni la filosofia shivaita rappresenta l’aspetto più astratto del pensiero religioso indiano. Essa ci porta gli strani e profondi insegnamenti della più antica cosmologia, come pure i metodi dello Yoga che sono la base di ogni concezione di progresso interiore e di realizzazione spirituale, nell’induismo attuale come lo era nell’India pre-ariana. L’induismo, così come noi lo conosciamo, e la filosofia dell’India sono per gran parte adattamenti e continuazioni dello Shivaismo pre-ariano, che fu la principale religione dei popoli che crearono la civiltà dell’Indo.
Gorlani scrive che riguardo a Krishna (letteralmente “attraente”, “scuro”) e a Rama (le cui gesta sono narrate nel Mahabharata, nel Ramayana e in alcuni Purana), sebbene i loro culti siano relativamente recenti, le loro radici affondano nell’antichità più remota. Daniélou, a proposito di testi quali l’Atharva Veda e i Purana, scrive: “Ritroviamo qui un fenomeno caratteristico della storia dell’India. I testi la cui versione attuale sembrerebbe la più recente, sono spesso in realtà, per il loro contenuto, i più antichi”. È importante altresì notare come la Bhagavad-gita, che Evola pregiava assai, sia il resoconto di una battaglia tra dravidi (i Pandava) e ariani (i Kaurava) ed è significativa la vittoria dei primi sui secondi. Alcuni studiosi eminenti, spiega bene Gorlani, come ad esempio Colin Renfrew, mettono addirittura in discussione l’origine extra-indiana degli ariani; egli, nella sua opera “Archeologia e linguaggio”, scrive: “Quando Wheeler parla dell’“invasione ariana della Terra dei Sette Fiumi, il Punjab” egli, per quanto ci è dato vedere, non ne ha alcuna prova. Se si controlla la dozzina di riferimenti del Rigveda ai Sette Fiumi, non vi è nulla, a mio avviso, che implichi un'invasione: la Terra dei Sette Fiumi è la terra del Rigveda, la scena dell'azione. Nulla implica che in essa gli Arii fossero stranieri, né che gli abitanti delle città fortificate (compresi i Dasyu) fossero più indigeni degli Arii stessi”. Poco più avanti si legge ancora: «Vi sono certamente elementi di continuità tra la civiltà dell’Indo e quelle ad essa successive. [...] Gli Allchin non suggeriscono che la stessa civiltà dell’Indo fosse probabilmente di lingua indoeuropea, ma semplicemente che potrebbero già essere riconosciuti elementi, al suo interno, che saranno caratteristiche successive della cultura indoariana come appare nel Rigveda». In India la teoria che attribuisce un’origine nordica, in senso geografico, alla propria tradizione non viene in genere accettata. Il Monte Meru, l’axis mundi, viene identificato simbolicamente nell’Everest. I pandit hindu sostengono che il Sanatana-dharma non sia stato portato in India da popoli provenienti dal nord, ma che fosse già lì. Scrive ancora Jagadguru Sri Chandrasekharendra Sarasvati appartenente al lignaggio shankariano: “[...] per lungo tempo la nostra è stata la sola religione esistente sulla faccia della terra. Tutte le altre religioni del mondo hanno ripreso e sviluppato alcuni aspetti della fede maggiore degli Hindu che li contiene tutti”. È vero, ricorda Gorlani, che Bal Gangadahar Tilak (i cui studi vennero pregiati sia da Evola che da Guénon e che i suoi contemporanei chiamarono Lokamanya “maestro onorato nel mondo intero”) non fu un Hindu occidentalizzato, tuttavia si deve sapere che le sue ipotesi su La Dimora Artica nei Veda (titolo di una sua celebre opera) vengono rifiutate da eminenti rappresentanti della tradizione indiana.
Gorlani che ha avuto l’occasione di visionare personalmente una lettera di uno Swami dell’ordine Sarasvati in cui si afferma che Tilak, pochi anni prima di Kaurava e Jarasandha fossero ariani, poiché va delineandosi sempre più chiaramente l’esistenza in quella parte dell’India di una cultura altamente sviluppata e di potenti regni non ariani ben prima della comparsa degli ariani stessi (non mi gira la frase). A conferma di come sia opportuno procedere con cautela nell’ambito della questione delle “origini”, Jan Gonda, in “Veda e antico Induismo”, scrive: «[...] il disseppellimento delle città di Mohenjodaro e Harappa aveva dimostrato come errata l'opinione sino ad allora in vigore, secondo la quale gli ariani sarebbero stati i fondatori della cultura superiore dell'India antica. L'origine, i portatori e la struttura politica di questa cultura sono questioni aperte». Come se non bastasse, nel libro “Antica India. La Culla della Civiltà”, Georg Feuerstein, Subhash Kak e David Frawley riassumono in diciassette punti le ragioni per le quali l’invasione ariana non si sarebbe mai verificata. L’amico Gianluca Padovan nel suo “Il mito europeo. Le culture che ci hanno preceduto” (2012) sostiene riferendosi al popolo europeo che non è possibile sostenere la tesi dell’indoeuropeismo e che la matrice ariana di quest’ultimo non ha origine alcuna con l’India, la quale non sarebbe affatto patria e origine dell’europeo stesso. Per Padovan il mito europeo inteso nel suo senso “ario” è il potente sussurro di una cultura stabile, poliedrica e versatile. L’essere umano si è mosso nel tempo al di là del proprio luogo originario, molto di più di quello che noi si possa immaginare, tuttavia il popolo europeo dovrebbe imparare a ritrovare la consapevolezza della propria divinità spirituale, innanzitutto riconoscendo il percorso culturale attraverso il tempo terrestre. La tradizione di sapienza eroica orientale alla quale si riferisce lo stesso Evola, lascia il posto al triplice triangolo che rappresenta il cuore di Odino, quale simbolo di stabilità, di potenza e di vittoria, nonché uno scudo a difesa delle energie negative.