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Massimo Mannarelli

IL BUDDHISMO. UNA PROSPETTIVA ANARCHICA!?


L’insegnamento di Buddha poggia su due parole-chiave: anicca e anatta. Il primo termine significa ‘impermanenza’ e afferma che non vi è condizione immutabile per ogni essere e per ogni fenomeno, ma solo un flusso in continuo divenire. Il secondo indica l’inesistenza di un io individuale e permanente. Dal punto di vista teologico l’anarchismo potrebbe essere definito ateo, non perché neghi a priori l’esistenza di uno o più déi (la negazione sarebbe a sua volta l’affermazione di un principio forte, sia pure in forma negativa), ma nel senso che prescinde dalla questione teologica stessa.

Il nucleo della ricerca e dell’insegnamento del Buddha riguarda la vita dell’uomo e il suo dolore.

Federico Battistuta sostiene che “Questo tratto squisitamente an-archico della via di Buddha è così marcato che alcuni studiosi occidentali hanno dimostrato più di un’incertezza nel considerare il buddhismo come una religione”.

Battistuta inoltre fa notare che le parole anicca e anatta presentano come anarchia il prefisso an– (che noi chiamiamo ‘alfa privativa’). Ora la lettera A, prosegue Battistuta, prima ancora di essere il simbolo per eccellenza del movimento anarchico, è anche un vero e proprio emblema buddhista, al punto da essere descritta come “la saggezza suprema in una sola lettera”: non è soltanto la prima lettera dell’alfabeto, che indica perciò l’inizio della comunicazione linguistica, ma è soprattutto il prefisso privativo da apporre a tutte le nozioni che vengono negate dalla perfetta saggezza della visione di Buddha (prajñaparamita), in quanto considerate come parole che rimandano a enti privi di una realtà propria.

Allora, secondo Battisuta, sostenere l’impermanenza di ogni essere, l’inesistenza di un’anima imperitura e la non rilevanza di una fondazione teologica, reca con sé come immediata conseguenza la negazione di ogni principio di autorità. Tra i discorsi di Buddha c’è un testo minore il Kalamasutta, rivolto cioè ai kalama (nome di un popolo o di un clan). Poiché molti predicatori si erano recati presso questa gente e tutti avevano proclamato la verità della propria dottrina, negando valore agli altri insegnamenti, così fu posta a Buddha la seguente domanda: come possiamo distinguere la verità dalla menzogna? La risposta fu tagliente: “Non fatevi guidare da dicerie, tradizioni o dal sentito dire. Non fatevi guidare dall’autorità dei testi religiosi, né solo dalla logica o dall’inferenza, né dalla considerazione delle apparenze, né dal piacere della speculazione, né dalla verosimiglianza, né dall’idea ‘questo è il nostro maestro’. Ma quando capite da soli, o kalama, che certe cose sono salutari e buone allora accettatele e seguitele”. A questo proposito, particolarmente noto è anche l’ultimo discorso di Buddha, in cui si dice: “siate lampada per voi stessi, prendete rifugio in voi stessi e non in altro”.

Nel buddhismo zen, ricorda ancora Battistuta, c’è un detto famoso: “Se incontri il Buddha, uccidilo!”. È un’affermazione spiazzante, priva di un significato a priori preciso: forse non ne ha alcuno, forse ne ha centomila. Sicuramente c’è la denuncia del pericolo di credere in un modello di perfezione fuori di noi – il Buddha – a cui aderire supinamente. Come ci viene suggerito tale modello non esiste: è solo un idolo creato dalla nostra mente, ottenuto invertendo di segno ciò che noi percepiamo come ‘negativo’. Uccidere Buddha può voler dire rivolgersi finalmente a ciò che c’è, per conoscerlo così com’è, senza volerlo cambiare ad ogni costo, ma in maniera del tutto astratta. Questo è anche l’unico modo per creare quello spazio in cui il cambiamento possibile può davvero accadere.

Con le parole di un testo classico del buddhismo tibetano: “La nozione del nulla genera la pietà. La pietà abolisce la differenza fra sé e gli altri. Il confondere sé con gli altri realizza la causa altrui. Colui che realizza la causa altrui mi troverà. Colui che mi avrà ritrovato sarà Buddha”.

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