BREVI RIFLESSIONI SULLA "MORTE DI DIO" IN FRIEDRICH NIETZSCHE
Dio è stato ucciso nell’indifferenza dall’uomo addomesticato e compiaciuto della propria mediocrità. Dio è morto dinnanzi all’uomo vile che non ne comprende l’enormità tragica dell’atto. Nietzsche si domanda: ”Ma come abbiamo potuto fare ciò? Come potemmo bere tutto il mare? Chi ci diede la spugna per cancellare tutto l’orizzonte? Che cosa abbiamo fatto quando staccammo la terra dalla catena del suo Sole? In quale direzione ora ci muoviamo? Non precipitiamo noi continuamente? Indietro, da un lato, davanti, da tutte le parti? C’è ancora un altro e un basso? Non voliamo come attraverso un nulla senza fine? Non soffia su di noi lo spazio vuoto?… Dio è morto, Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!" (Nietzsche, La gaia scienza, p.129, Adelphi) La morte di Dio non è solo un avvenimento storico ma è la premessa stessa che apre alla possibilità di sperimentare il presente come valore in sé, svincolato dal passato e del futuro e eticamente immotivato.
Se per Arthur Schopenhauer tutto ciò era implicito e visibile all’interno della concezione dell’io stesso; in Nietzsche è apertamente dichiarato con parole terribili ed efficaci. La morte di Dio genera da una parte meraviglia e gioia: "Dio è morto e il nostro mare è di nuovo aperto, forse non ci fu mai un mare così aperto" dice Nietzsche. Ma, dall’altra parte, questo evento porta con sé senso di vertigine e di perdita, ma anche il dubbio che tale avvenimento non sia stato ancora percepito in tutta la sua gravità. La morte di Dio, ammessa volgarmente, data per scontata, portata senza dramma, sprigiona tutte le sue conseguenze. Il fatto che "l’uccisione di Dio" sia stata compiuta senza tragedia ha impedito che l’uomo, liberatosi dalle credenze ultraterrene, trovasse la forza di vincere la nausea del vuoto. Per poter fare a meno di Dio (perno di ogni valore e di ogni legge morale) è necessario invece che la natura umana, oggi pericolosamente in bilico, faccia un passo avanti. Il passaggio è difficile e non esente da incubi ritornanti (nostalgia di sicurezza, ventate di pessimismo, perdita di orientamento), ma senza molte alternative; la vita, non più protetta e racchiusa nelle antiche spiegazioni; non ancora gioiosamente e tragicamente accettata nella sua mancanza di senso, straripa sempre più pericolosamente: "Fratelli miei, non è oggi tutto nel flusso della corrente? Non sono caduti in acqua tutti gli esili ponti e i parapetti? Chi potrebbe mai appigliarsi ancora a bene o male?" (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p.132) Il mondo perde la sua unità organica e lo stesso soggetto umano si eclissa divenendo qualcosa di non sostanziale, una formazione provvisoria e precaria, soggetta al conflitto delle varie forze biologiche. Allora il mondo si frantuma in preziosi pezzetti, la realtà si fa piccola e non collegabile. L’infinito non ci appartiene più; esso fa paura e stanchezza. Il finito non trapassa più nell’infinito, ma si rinserra e si ritaglia e viene amato ed apprezzato proprio per se stesso, perché finito, perché incastonato in questo temporaneo mondo dell’esistenza. Un respiro lento delle cose, un senso metafisico caratterizzano questa epoca di stallo, in cui la vecchia immagine dell’uomo è gia visibile e la nuova ancora da venire: "Io non so uscire né entrare; io sono tutto ciò che non sa uscire né entrare, sospira l’uomo moderno"