IL SACRIFICIO DI ABRAMO SECONDO LA VISIONE PROTESTANTE DI KIERKEGAARD
Kierkegaard sottolinea le differenze tra il “cavaliere della fede” e l’“eroe tragico”. A quest’ultimo, che trova in Agamennone il suo paradigma, gli dèi chiedono di sacrificare la figlia: e l’eroe greco lo fa per determinazione morale, scegliendo di sacrificare il particolare (la figlia Ifigenia) a vantaggio dell’universale (l’esercito greco). In questo sacrificio, in cui “ha trovato riposo”, Agamennone “lascia il certo per ciò che è ancora più certo”.
Il cavaliere della fede, sull’altro versante, compie un sacrificio di tutt’altro genere: non c’è ragione alcuna per sacrificare Isacco, sicché Abramo è “o un assassino, o un credente”. Secondo Kierkegaard egli non agisce neppure per rassegnazione (che è un “surrogato della fede”), cosa che gli farebbe accelerare il passo mentre sale al monte sacrificale.
Nella fede “l’individuo si rapporta con l’Assoluto in modo assoluto”: si viola la norma etica e, ciò non di meno, si è giusti, proprio perché si è in rapporto assoluto con l’Assoluto. Si evince facilmente come la fede sia paradosso, impossibile da integrare con qualsiasi sistema, anche con quello morale. Da un punto di vista meramente etico, Abramo è un assassino; ma da un punto di vista religioso, egli è il giusto, il cavaliere della fede. Quest’ultimo, secondo Kierkegaard, trasgredisce le norme etiche restando tuttavia giusto di fronte all’Assoluto facendo sorgere la categoria del dovere assoluto verso Dio per cui “nessun sacrificio è troppo duro quando è Dio che lo vuole”.
L’autentico sacrificio è totalmente estraneo alla ragione, alla luce del fatto che è un sacrificio assoluto e verso Dio. Sicché, se Agamennone può spiegare il suo sacrificio ed essere compreso dagli altri uomini, il sacrificio di Abramo è incalcolabile, incomunicabile e incomprensibile. A rigore, nel caso di Agamennone, più che di sacrificio sarebbe opportuno parlare di scambio, in una logica del do ut des che ha a che fare con la ragione calcolante e che trova rifugio “tra le braccia degli uomini”: infatti, Agamennone è l’eroe che tutti comprendono. Sul versante opposto, Abramo non può comunicare a nessuno il proprio sacrificio: egli è condannato al silenzio, perfino di fronte alla moglie Sara e a Isacco.
Tuttavia il silenzio di Abramo è per Kierkegaard legato all’impossibilità di spiegare razionalmente il sacrificio; egli si trova dunque necessariamente condannato al silenzio
Ma nella scelta che si compie per passare da uno stadio all’altro non si dà certezza, sicché ogni scelta è accompagnata dal rischio dell’angoscia. Scegliere significa porsi nell’ottica dell’aut-aut: nel caso di Abramo, o si dà la possibilità di un rapporto assoluto con l’Assoluto o il suo è un assassinio e nulla più. Dal canto suo, Kierkegaard riconosce esplicitamente di non possedere la fede di Abramo, così profonda e determinata: per questo motivo, dice di precipitare nel dolore e nella rassegnazione; soffrire sapendosi colpevoli implica l’avere un compito da portare a termine, a tal punto che “il cristianesimo è l’Assoluto, e rapportarsi assolutamente all’Assoluto è, eo ipso, sacrificarsi”. La natura del sacrificio cristiano non consiste nell’offerta (in tal caso si avrebbe una mistificazione del sacrificio), ma piuttosto in un gesto da compiersi quando si sia raggiunta la consapevolezza della propria colpevolezza. Ma allo stesso tempo il sacrificio è anche untèlos, un fine che dobbiamo consapevolmente scegliere. La sofferenza è, per Kierkegaard, l’unica via per raggiungere la redenzione, come insegna Cristo che si è sacrificato interamente: “amare Dio è voler soffrire”. Egli insiste decisamente sul nesso tra sacrificio cristico e sacrificio che ognuno deve compiere, in opposizione a quei cristiani che sostengono che, dopo Cristo, non ci devono più essere vittime. Si tratta invece di essere vittime per far risaltare che Cristo fu l’unica vittima: Egli ha indicato ai cristiani che l’obiettivo della loro esistenza è il sacrificio, che deve essere incondizionato e fondante dello stadio religioso, ed esso avviene soltanto nell’istante, è un valico superato il quale nulla è più come prima. Si tratta allora di tornare al cristianesimo originario e al sacrificio: esso però non dev’essere compiuto facendo di necessità virtù. È esattamente il sacrificio, nota Kierkegaard, a dividere l’umanità in due categorie: le bestie e gli “amici di Dio”, chiamati a sacrificarsi di continuo e a soffrire. In questo mondo che è una “galera”, “c’è sempre bisogno di sacrifici”, senza l’assurda pretesa di sapere dove e quando compierli, tenendo presente che il sacrificio è una scelta singolare che non avviene attraverso la formazione di “partiti né combriccole”. E al di fuori della Rivelazione vangelica non si dà sacrificio in senso autentico. Secondo l’etimo greco, il martire è l’inciampo (scàndalon) della ragione, e al giorno d’oggi deve necessariamente essere un martire, per così dire, “mediato”, tale cioè da acquisire onore e fama per poi sacrificarli. La sua visione di un ritorno al cristianesimo delle origini è un attacco a tutto ciò che è mondano, poiché amare Dio significa diventare infelici su questa terra.