L'ESPERIENZA DI DIO ATTRAVERSO IL SILENZIO IN RAIMON PANIKKAR
Raimon Panikkar (1918 – 2010), filosofo, teologo, presbitero e scrittore spagnolo, di cultura indiana e catalana, parla del silenzio come l’atmosfera in cui l’esperienza di Dio possa respirare senza soffocare nella dialettica.
La teologia apofatica (ossia quel metodo teologico secondo il quale Dio è del tutto inconoscibile attraverso la razionalità, perché trascende la realtà fisica e le capacità cognitive umane) orienta la nostra attenzione verso la contemplazione.
Angelus Silesius (1624 – 1677), poeta e mistico tedesco, ci raccomanda per giungere all’esperienza di Dio, di non uscire dall’ambito del silenzio, perché Dio è silenzio stesso. Nella sua opera “Il pellegrino cherubico” egli scrive: “Dio è tanto al di sopra di tutto che non gli si può parlare. Adoralo pertanto in silenzio” e anche “Taci caro, taci; e se puoi tacere davvero Dio ti darà la più benedizione di quella che hai desiderato”, ma anche “Uomo, se vuoi pronunciare l’Essere dell’eternità, prima devi interrompere completamente ogni parlare”, “Quando pensi a Dio, lo senti dentro di te. Taci e stai tranquillo; allora ti parla continuamente” e infine “Nessuno parla meno di Dio, senza tempo né luogo. Egli parla solo un’unica parola”.
Panikkar afferma che l’unico modo per parlare con Dio è il vocativo poiché il nominativo non esiste e tutti gli altri casi sono antropomorfismi o idolatria. Il vocativo è, quindi, l’esclamazione che esce dal profondo dell’anima, tanto dal profondo che non riesce neppure ad essere udita da noi stessi. Dio è simbolo intraducibile che non esige preghiera, salmo, lode o canto perché nulla di tutto questo arriva a Dio.
Panikkar insiste sull’idea che tali azioni altro non sono che preliminari, gesti che probabilmente hanno successo se vengono fatti con buona volontà, ma che corrono il rischio di farci credere che possiamo manipolare Dio.
Silesius nell’opera sopra citata scrive: “Mentre più conosci Dio, più ti renderai conto che meno puoi conoscere chi sia”.
Nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, la più antica delle Upanisad si afferma: “Che il saggio pratichi la sapienza e non cada in molti discorsi che sono chiacchiera vana” (BU IV, 4,21).
Tale verso secondo Panikkar ci insegna la tradizione religiosa dell’umanità, possiamo dire, secondo quest’ultimo, che solo quando si è raggiunto il triplice silenzio è possibile l’esperienza di Dio.
Per silenzio non si intende quell’artificiale chetare i desideri umani, come neppure tacere o mettere in atto alcun tipo di repressione.
I tre silenzi di cui parla Panikkar sono:
Il silenzio della mente. Vale a dire l’aver quietato la mente in modo che le nostre idee non prevalgano sulla nostra vita quasi che l’esistenza umana sia la conclusione di sillogismi che si fondano su primi principi. La mente custodisce il silenzio quando tace con rispetto dinnanzi agli interrogativi ultimi del nulla, che probabilmente la mente stessa ha posto. Rendersi conto che non possiamo comprendere tutto, affranca la mente da un peso che spesso la opprime; la mente ha certo dei diritti e il suo ambito e ad essa spetta il veto su ogni azione irrazionale, tuttavia essa non è l’ultima guida dell’uomo. Infatti, come dice la Katha Upanisad (I, 2, 23): “Non è grazie ad una grande cultura né grazie ad uno sforzo mentale o allo studio delle scritture che si raggiunge l’Atman.”
Il Silenzio della volontà. Più difficile da raggiungere. Esso si ottiene non quando vogliamo non volere e neppure quando semplicemente non vogliamo, ma quando la volontà stessa non fa rumore esi muove armonicamente nel tutto. Taluni chiamano questa esperienza silente come la “purezza del cuore” o con il termine “cuore vuoto”: il grande mistico persiano al-Hallaj avrebbe detto: “Dio abitava nel suo cuore ed era l’anima della sua anima”.
Il silenzio dell’azione. Fa riferimento all’azione non violenta che orienta la vita come un esperto timoniere che non segue esattamente la direzione del vento, ma solo la sfrutta. L’azione feconda e potente non si misura mediante lo sforzo, né partendo dalle rivoluzioni che scatena, ma per la forza con cui dirige gli avvenimenti della vita sia a livello personale che storico e persino cosmico. Il senso profondo dei cosiddetti doveri o comandamenti consiste proprio nel rifarsi al karma yoga della Bhagavad gita e molto usato da Swami Sivananda; nei salmi di Davide si dice: “I tuoi comandamenti sono gioiosi e liberano il cuore”.
Secondo Panikkar tante sono le strade che conducono all’esperienza di Dio: tante strade psicologiche quante sono gli individui; tante strade tradizionali quante sono le religioni; tante strade personali quante sono le religiosità; ciò nonostante Dio non è né degli uni né degli altri, né dei buoni né dei cattivi, egli trascende il nostro linguaggio o ogni nostra facoltà. E’ in questa esperienza di trascendenza pura che sperimentiamo il vuoto, la vacuità e, in ultima analisi, il silenzio. Quest’ultimo è l’unico spazio di libertà, il pensiero non è totalmente libero poiché il principio di non contraddizione lo costringe. E neppure la volontà è totalmente incondizionata, essa si vede costretta dal bene, anche se esso è parziale o la volontà rischia di sbagliare. L’azione non è il mero muoversi, in quanto essa di dirige verso un fine che a sua volta la orienta. Solo il silenzio, conclude Panikkar, dà spazio alla libertà che altro non è che Dio stesso. Il silenzio dunque è lo spazio dell’esperienza di Dio.