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Massimo Mannarelli

SH'IA E TASAWWUF. UN INCONTRO POSSIBILE


In questa sede intendiamo dare corpo all’intesa relativa all’intimo vincolo fra il principio sciita dell’imamato e la concezione della guida spirituale propria ai sufi attraverso l’analisi dell’articolo “Il sufismo nella confluenza dei due mari” di Wahìd Akhtar, Docente di Storia della Filosofia Islamica presso l’Università di Aligarth (Pakistan).

Gli eminenti sufi hanno definito il loro insegnamento (tasawwuf) come l’essenza dell’etica islamica. Secondo Wahid Akhtar esistono, però, differenti punti di vista riguardo all’etimologia del termine tasawwuf.

Fra gli orientalisti pochi sono coloro che condividono il punto di vista secondo cui il tasawwuf non deriva dall’interiorità dell’insegnamento islamico, tuttavia all’interno del mondo islamico vi è anche una parte che ritiene che parte dei suoi principi derivino, o siano stati influenzati, da fonti pre o extra-islamiche. A riguardo vi è da notare che è ovvio che chiunque tornasse all’Islam avesse prima una collocazione religiosa e spirituale differente; in particolare i mistici di altre fedi possano aver trovato nell’incontro con il Profeta Mohammed (S), e in particolare attraverso la Sharia, la chiave di accesso per portare a compimento la propria Via spirituale.

E’ indubbio, scrive Akhtar, che tutte le religioni posseggano una dimensione gnostica (°irfani) quale elemento comune e dimensione esoterica stessa di ogni tradizione. L’Islam differisce dalle altre religioni per via del suo carattere peculiare. A prescindere in certa misura dal Giudaismo delle origini, infatti, nessuna altra religione sottolinea l’unità organica del mondano e del trascendente fondandosi su una Legge onnicomprensiva che presiede alla vita dell’uomo e della società. L’etica può a ragione essere, infatti, considerata un aspetto interiore dell’Islam, in quanto include due dimensioni inseparabili ossia quella individuale e quella collettiva.

Wahid Akhtar ci ricorda che: “L’insegnamento islamico comprende tre aspetti: i principi di fede (°aqa’id), di adorazione (°ibadat) e di relazioni sociali (mu°amalat). I fondamenti della fede furono rilevati al Profeta (S)[1] ed egli prescrisse le modalità degli atti di culto e dell’adorazione decretati da Allah (SwT) [2] nel Suo Libro in termini generali. Per questa ragione il Corano e la Sunnah sono le due fonti della fede e della operatività islamica. Il sentiero del conseguimento della perfezione nella adorazione non può prescindere dai dovere nei confronti dei propri simili. Il musulmano si impegna a conseguire le stazioni spirituali più elevate mediante le sue relazioni con gli altri esseri umani”.

A riguardo, continua Akhtar, i teologi musulmani in generale ed i sufi in particolare credono che Allah (SwT) possa perdonare le violazioni dei Suoi diritti (huququ ‘Llah), ma non la violazione dei diritti umani (huququ ‘n-nas) a meno che l’individuo oppresso acconsenta anch’egli a perdonare chi l’ha oltraggiato. Per questa ragione l’etica intesa come scienza in grado di estendersi soltanto in seno alla collettività ha una importanza pari a quella dei principi di fede e di adorazione.

Tale etica ha decise comunanze con il pensiero di Platone il quale pensava che il mondo esistente con le sue forme di vita e l’ordine politico in essere fossero erronei e conflittuali, ma soprattutto incapaci di realizzare la giustizia tanto nelle città quanto nell’anima individuale. Il filosofo ellenico pensava, quindi, che occorresse trasformare profondamente la vita individuale e collettiva degli uomini richiamandosi ad un piano di valori esterni all’esistente, per rifondare, partendo da essi, l’esistenza stessa. Il bene platonico non era considerato un bene attuabile compiutamente nel mondo, quanto piuttosto un limite, un orizzonte verso il quale orientarsi per trasformare progressivamente il mondo in cui si viveva e la propria natura.

Wahid Akhtar sostiene che la prospettiva islamica mira al perfezionamento stesso dell’etica attraverso i principi di fede e gli atti di adorazione.

Il Profeta stesso (S) ha detto: ”Innamà bu°ithtu li-utammima makàrima ‘l-akhlaq.” (Invero sono stato inviato per completare i benefici dell’etica)

Da ciò deduciamo che la definizione del tasawwuf come essenza dell’etica islamica è più di qualunque altra adeguata allo spirito dell’Islam ed al contenuto della disciplina stessa, visto che a prescindere dalle controversie etimologiche, sin dal momento in cui si sono diffusi i termini sùfì e tasawwuf, i detentori di questo insegnamento hanno sottolineato il ruolo della purezza (safà’), come carattere primario del sùfì.

E’ detto nel Sacro Corano: “Qad aflaha man tazakkà” (Prospererà invero colui che purificherà la propria anima, Santo Corano, 87: 14)

Wa nafs-in wa mà sawwàhà, fa’alhamahà fujùrahà wa taqwàhà. Qad aflaha man zakkàhà. Wa qad khàba man dassàhà” (Per l’anima e per ciò che l’ha formata, mostrandole il suo degrado e la sua custodia. Prospererà invero colui che la purifica, mentre invero perirà colui che la corrompe, Santo Corano, 91: 9-10)

Akhtar fa notare come i versi sopracitati affermino che Allah (SwT) ha dato forma all’anima umana dotandola della comprensione di ciò che le giova o che le nuoce. La purificazione del cuore e dell’anima non è un fine in se stesso, ma un mezzo per conseguire il compiacimento di Allah (SwT), sommo bene dei sufi.

L’Islam proibisce l’ascetismo e la rinuncia alla vita comunitaria, con le parole: “Là rahbaniyyata fì l’Islàm” (Non vi è monachesimo nell’Islam) radicando la spiritualità islamica all’interno del mondo attraverso il quale si attraversa il sentiero della perfezione per ottenere il compiacimento divino.

“Ya ayyuhà ‘n-nafsu ‘l-mutma’inna. Irhi’ì ilà Rabbiki ràdiyyat-an mardiyya. Fa’dkhul’ fì °ibàdì. Wa ‘dkhulì jannatì” (O anima acquietata, torna al Tuo Signore compiaciuta e compiacente, entra fra i Miei servitori, entra nel Mio Giardino, Santo Corano, 89:27-30).

La stazione, quindi, più elevata che l’uomo può conseguire nel compiacimento del suo Signore si identifica col pieno adeguamento alla Sua volontà.

Wa mina ‘n-nàsi man yashrì nafsahu ‘btighà’a mardàti ‘Llàh, wa ‘Llàhu ra’ùf-un bi-l-°ibàd.” (E fra gli uomini vi è colui che vende la propria anima per procacciarsi i favori di Allah, e Allah è indulgente verso i Suoi servitori, Santo Corano, 2:207).

Wahid Akhtar sostiene che in tali versi è contenuta la definizione più profonda del vero sufismo.

La stessa gnosi islamica si differenzia e si distingue da ogni altra forma di esoterismo tesa al conseguimento del compiacimento supremo, dell’unione con Allah (SwT) o della rinuncia al mondo.

Ciò che distingue a sua volta il sufismo dalla dimensione esoterica delle altre religioni o forme tradizionali è il suo fondamentale orientamento comunitario. Il Profeta (S) viveva fra gli uomini ed instaurava con loro relazioni sociali e politiche. Secondo il punto di vista proprio a tutti i Musulmani, egli è in senso eminente l’uomo universale (al-insànu ‘l-kàmil). Di conseguenza nessun sufi potrà mai pretendere di conseguire lungo il sentiero una stazione più elevata della sua.

Nella tradizione dell’Islam Shia si crede che gli Imam della Gente della casa del Profeta (a’immatu Ahl ul-Bayt) (as) abbiano sempre operato al fine di istruire i Musulmani e di elevare il loro rango etico e sociale a quello di probi servitori di Allah (SwT).

Nonostante diversi orientalisti tendano ad ignorare il ruolo degli Imàm dell’Ahl ul-Bayt (as) rispetto all’origine ed allo sviluppo del tasawwuf; va ricordato invece che molti di Imam non solo erano e sono tenuti in considerazione dal sufismo stesso, ma pare che molti sufi siano stati discepoli diretti dell’uno e dell’altro Imam (as). Affermando questo siamo portati a comprendere la dimensione socio-politica del tasawwuf studiando il vincolo che connette gli Imàm (as) alle dottrine sufi. A riguardo è degna di rilievo e significativa l’osservazione di Henry Corbin, il quale sottolinea che, mentre i Sunniti distinguono fra Legge esoterica (Sharì°ah) e Sentiero della realizzazione esoterica (Tariqah), la Shia si sia sempre guardata dall’operare tale distinzione, poiché se i primi separano il potere temporale dall’autorità spirituale, i secondi cumulano i due domini nella funzione dell’imamato.

Wahid Akhtar sostiene che se nel mondo sunnita allorquando, nel terzo/nono secolo, il sufismo assume la forma di un movimento ben definito, esso fu soggetto alla veemente opposizione dei sapienti (°ulamà’) e dei giuristi (fuqahà’); viceversa nel mondo sciita tutto ciò non avvenne dacché la fede nell’infallibilità dell’Imàm fonde la funzioni esoterica ed esoterica nella medesima persona. Henry Corbin e Kàmil Mustafà ash-Shaybì, (autore dell’opera Tashayyu° wa tasawwuf “Shi°ismo e sufismo”), sono concordi nell’affermare che i sufi trassero la loro nozione di polo (qutb) e di “supplente” (ghawth) dalla funzione sciita dell’imamato stesso.

Nel sufismo di fatto si ritiene l’universo non possa sussistere in assenza di un polo da cui dipendono la preservazione della fede e la guida degli esseri umani; tale polo è fra gli approssimati ad Allah (SwT), è il tutore della fede e riceve istruzioni direttamente da Allah (SwT).

Alì ibn Abi Talib (riconosciuto da alcuni ordini sufi come loro maestro) nel Nahj ul-Balaghah, rivolgendosi al suo discepolo Kumayl ibn Ziyàd, dice:“La terra non è mai priva di colui che si erge (qà’im) per Allah (SwT) mediante una prova (hujjah). Egli è manifesto e conosciuto, oppure timoroso e celato, affinché le prove di Allah (SwT) e le Sue evidenze non vengono invalidate (dalla sua morte). Quanto sono e dove risiedono? Per Allah (SwT), il loro numero è assai ristretto, ma essi sono immensi presso Allah (SwT), quanto a misura. Mediante essi IdAllah (SwT) fornisce le Sue evidenze, siano quando essi affidano (tali funzioni) ad altri loro simili e le trapiantano nel cuore di altri loro pari.

La scienza li ha condotti alla verità della visione (spirituale) ed essi hanno conseguito lo spirito della certezza. Ciò che è arduo per quanto ricercano gli agì è per loro agevole. Essi hanno caro ciò che gli ignoranti guardano con disprezzo. Vivono in questo mondo con i loro corpi, ma i loro spiriti sono sospesi nella dimora più elevata. Essi sono i vicari di Allah (SwT) sulla terra, coloro che lanciano l’appello alla religione. Oh, quanto anelo alla loro visione. O Kumayl, torna pure quanto vuoi (per ricevere ulteriori insegnamenti).”

E poi ancora si legge: “In verità questo mondo è una dimora di veridicità per coloro che in esso sono veritieri, una dimora di quiete per coloro che lo afferrano, una dimora di arricchimento (spirituale) per coloro che ne traggono profitto, una dimora di ricompensa per coloro che ne traggono giovamento, un luogo di prosternazione per gli Amati di Allah (SwT), un luogo di preghiera per gli Angeli di Allah (SwT), il ricettacolo della rivelazione di Allah (SwT), il campo degli Intimi di Allah (SwT). In esso si guadagna la misericordia, ed in esso ci si merita il Paradiso. Chi può dunque parlarne negativamente?”.

L’Iman Alì appare dunque come un individuo disincantato da questo mondo e avverso ad esso per quanto quest’ultimo, anticipando il filosofo razionalista Leibniz, sia il migliore dei mondi possibili.

Henri Corbin nell’opera “Historie de la philosophie islamique”, Mustafà Kàmil ash-Shaybì nell’opera “Tashayyu° wa tassawuf”, Shàh Waliyyu ‘Llàh nell’opera “Hama°àt” e I. P. Petroshvenski nell’opera “Islàm dar Iràn” ribadiscono la loro adesione al punto di vista secondo il quale il tasawwuf sia il prodotto naturale dell’insegnamento coranico, quale frutto dell’operatività dei primi Musulmani arabi i quali si ritirarono da una società che ritenevano ormai lontana dagli ideali islamici di giustizia e di frugalità per concentrarsi in modo esclusivo sull’adorazione e sui riti. Ciò a seguito del disincanto derivante dalla corruzione della Comunità islamica, sopraffatta dalle continue ed ingenti ricchezze che inondarono l’Arabia e le sue città più importanti poco tempo dopo la morte del Profeta (S).

Secondo alcuni storici questa tendenza iniziò sotto il califfato del terzo Califfo Uthman ibn Affan e si protrasse, radicandosi, in concomitanza con la tragedia di Karbala, il sacco di Medina ed il massacro della Mecca. Alla prima generazione di rigoristi (zuhhàd), di dediti all’adorazione (°ubbàd) e di teologi (mutakallimùn) appartiene al-Hasan al-Basrì. Nella sua opera “Hama°àt Shàh Waliyyu ‘Llàh”, il celebre sufi di Dehli, pur non entrando in tali dettagli sostiene che il tasawwuf sorge nella cerchia dei rigoristi e degli adoratori tra i Compagni (Sahàbah) i Seguaci(Tàbi°ùn) ed i Seguaci dei Seguaci (Tàbì°u’t-Tàbi°ìn) del Nobile Profeta (S), e salvo qualche rara eccezione essi erano tutti arabi: ciò è sufficiente a confutare l’idea diffusa secondo la quale il tassawuf rappresenterebbe una reazione della “mentalità iranica” al “legalismo arabo”.

La stessa fede nell’infallibilità degli Imàm (as) si fonda sull’insegnamento islamico relativo all’essenza immacolata dei Profeti (as) e sembrerebbe non aver legame alcuno con la dottrina persiana dell’origine divina dei re e tanto meno con la tradizione israelita.

La cessione del califfato da parte dell’Imàm al-Hasan (as) segna l’inizio del consolidamento della dinastia ummayade, la cui politica implicò, per la scuola sciita, una fragrante alterazione dei principi dell’assetto socio-politico proprio all’Islam. Akhtar sostiene che dopo il martirio di Karbala, gli Imàm della Gente della casa muhammadiana (Ahl ul-Bait) (as) si ritirarono dall’attività politica, dedicandosi all’insegnamento ed allo sviluppo delle scienze religiose in vista della preservazione dell’Islam e del suo orientamento spirituale.

Quando, in concomitanza con il declino della dinastia ummayade, Abù Muslim al-Khuràsànì gli offrì il califfato l’Imàm rifiutò, seguitò a sviluppare la trasmissione dell’insegnamento dei suoi padri e si astenne, almeno apertamente, dalla scena politica. Tutti gli altri Imàm dello sciismo duodecimano (shì’ah ithnà ‘asharì) (as) che si attennero a tale orientamento divennero celebri e riveriti per il loro eccelso timor di Allah (SwT) e la loro sapienza.

Gli Imàm (as) furono accolti da alcuni dei più celebri sufi loro contemporanei, quali al-Hàrith al-Muhàsibì, Abù Yazìd al-Bastàmì, al-Hasan al-Basrì e Sufyàn ath-Thawrì. Le signore della Gente della casa (Ahl ul-Bait) sono annoverate fra le esponenti originarie della scuola d’Amore (°ishq) del tassawuf.

Fra esse eccellono °A’isha, figlia dell’Imam Ja°far as-Sàdiq (as) e contemporanea di Ràbi°ah al-°Adawiyyah e di Hasan al-Basrì, Nafìsah (secondo/ottavo secolo) e Fàtimah (m. 244/838).

Sebbene gli Sciiti ed i discendenti di °Alì (as), chiarisce bene Akhtar, non si attribuiscano in genere il nome di sufi, rimane che alcuni di essi vengano annoverati nelle biografie dei maestri degli ordini sufi (tadhkiràt). Fra tali discendenti della Famiglia del Profeta va fatta menzione di °Abdu’ Llàh, nipote dell’Imam zaidita Ibràhìm ibn °Abdi ‘Llàh ibn Hasan, citato da ash-Sha°rànì nell’opera Tabaqàtu ‘l-kubrà, Abù ‘l-Hasan al-°Alawì (m. 291/904), citato da al-Hujwìrì nell’opera Kashfu ‘l-mahjùb e da °Abdu ‘Llàh al-°Ansàrì nell’opera Tabaqàtu ‘s-sufiyyah, Abù Hamzah al-Khuràsànì (m. 290/903), citato da Khwàjah °Abdu ‘Llàh al-°Ansàrì nell’opera Tabaqàt, Muhammad ibn al-Hasan al-°Alawì, nella cui casa fu ospitato Mansùr al-Hallàj quando risiedette a Kufah, citato da al-Hujwìrì nell’opera Kashfu ‘l-mahjùb, Hamzah ibn °Abdi ‘Llàh ibn Muhammad ibn °Abdi ‘Llàh, citato nell’opera Sharhu manàzili ‘s-sa’irìn, Ibràhim ibn Sa°d al-°Alawì, conosciuto con l’appellativo Sayyidu ‘l-Zàhid (capo del rigore), citato nell’opera Kashfu ‘l-mahjùb come maestro di Abù Sa’ìd al-Kharàz per quanto attiene alle tradizioni (ahàdith), Zayd ibn Rifà°ah, intimo di ash-Shiblì e ritenuto uno degli autori delle Epistole dei Fratelli della purità (Rasà’ilu Ikhwàni ‘s-safà’), citato da al-Bayhaqì nell’opera Tatilmatu sawàni ‘l-hikmah e Muhammad ibn Abì Ismà°ìl °Alì al-°Alawi (m. 395/1004), citato nell’opera Ta’rikh Baghdàd .

Wahid Akhtar scrive: “Nonostante la protesta di alcuni sufi, fra i quali Khwàjah °Abduh ‘Llàh al-Ansàrì, secondo cui la discendenza da °Alì (as) è incompatibile con il tassawuf, e malgrado la riluttanza degli sciiti ad accettare l’appellativo mutassawuffùn (seguaci del tassawuf), si da un’intima connessione tra il sufismo, la Shia e i discendenti del Principe dei credenti. Non vi è alcuna delle catene di trasmissione dell’insegnamento del tassawuf che non annoveri uno o più dei primi undici Imam della Gente della Casa di Muhammad (Ahl ul-Bait)(as)”.

Per alcuni secoli gli Sciiti non fondarono alcun ordine, ma nel corso del tempo emersero alcune catene di trasmissione (salàsil) puramente sciite imamite, come quelle degli ordini tayfùriyyah, bektàshiyyah, safaqiyyah, haydariyyah, ni°matullàhiyyah, jalàliyyah e nùrbakhshiyyah, cui si ricollegarono numerosi discepoli sunniti. D’altra parte gli esoteristi sciiti, che in genere tendono a rigettare il termine mutasawuffùn e designano se stessi gnostici (°urafà’) e il loro insegnamento spirituale gnosi (°irfàn), recepiscono e trasmettono l’insegnamento di sùfi quali Abù Hàmid al-Ghazàlì e Muhì’d-Dìn ibn al-°Arabi.

Nel capitolo dedicato alla gnosi dell’opera “Introduzione alle scienze islamiche”, Murtadà Mutahhari scrive: “Gli gnostici (°urafà’) ed i sufi non formano in seno all’Islam una setta separata, né essi stessi si ritengono tali. Appartengono anzi ad ogni scuola e ad ogni setta, eppure si condensano al fine di costituire una cerchia sociale distinta. I fattori che li differenziano in seno alla Comunità islamica, sono una catena di insegnamenti e punti di vista, un modo peculiare di regolare le loro relazioni sociali, l’abito, talvolta il modo di portare capelli e barba e la vita comunitaria nelle loro sedi, dette in persiano khàniqah, in arabo zawiyah e in turco tekkiye.

Ovviamente sono esistiti alcuni gnostici, in specie fra gli Sciiti, che non ricorrono ad alcuno di tali segni esteriori per distinguersi dagli altri, pure essendo al contempo profondamente coinvolti nella metodologia spirituale della gnosi, che trova espressione nel viaggio (sayr) e nell’itinerario (sulùk)”.

L’autore citato opera una distinzione fra l’etica da un lato e la metodologia fondata sul viaggio e l’itinerario, in quanto l’etica è statica, mentre la gnosi mira al conseguimento dei più elevati valori etici per il tramite della scienza spirituale. Tale distinzione è operata da Mutahhari al fine di chiarire il carattere della legge esteriore (Sharì°ah), del sentiero iniziatici (Tarìqah) e della Verità Essenziale (Haqìqah). Va comunque rilevato che egli fa risalire l’origine della gnosi a scienze quali la trasmissione dei detti (hadith), l’esegesi coranica (tafsir), la giurisprudenza (fiqh), la teologia speculativa (kalam) e i principi di giurisprudenza (usùlu ‘l-fiqh).

Non vi sarebbe quindi alcuna separazione fra gnosi e Legge tradizionale, a tal punto che se al-Ghazàlì (figura altamente stimata dalla scuola sciita) dopo aver abbracciato il sufismo rigettò in blocco la filosofia in specie di quella di Ibn Sìnà (Avicenna), alcuni eminenti pensatori e giuristi sciiti riconciliarono invece la gnosi, con la filosofia e la teologia.

In particolare va ricordato che pur affermando che lo svelamento intuitivo (kashf) è un grado più elevato dell’intelletto (°aql) ed è ad esso intimamente connesso, al-Ghazàlì tende a svilire l’intelletto per quanto attiene alla sua funzione nel conseguimento dell’iniziazione. Altra contraddizione presente nell’opera di al-Ghazàlì risiede nel fatto che egli presenta la realizzazione iniziatica e confuta l’utilità della filosofia applicando un metodo rigorosamente filosofico.

Kàmil Mustafà ash-Shaybì sottolinea, invece, che gli sciiti raggiunsero il sufismo teorico mediante la teologia e passando attraverso la filosofia.

Anche durante il periodo safavide, spiega Akhtar, quando al-°Allamah Baqir al-Majlisì impiegò tutti i mezzi a sua disposizione al fine di estinguere la gnosi e il tasawwuf nell’Iran shia, alcuni dei sapienti suoi contemporanei possedevano tendenze sufi, come nel caso Muhsin al-Fayd al-Kàshànì.

La gnosi tornò, quindi, a diffondersi in Iran con l’avvento della dinastia magiara. Soprattutto col rimpatrio dall’India e dall’Iran di maestri (pìr) dell’ordine Ni°matullàhi rifiorirono altri ordini, a prescindere dall’origine sciita o sunnita. Sebbene nella sua opera Ashenà’ì bà °olum-e eslàmì (Introduzione alle scienze islamiche) Mutahhari abbia accuratamente distinto i trasmettitori di tradizioni (muhaddithùn), i giuristi (fuqaha’), i teologi (mutakallimùn) ed i commentatori del Corano (mufassirùn) appartenenti rispettivamente alla scuola sunnita o a quella della shia pure, intenzionalmente o meno, non ha operato alcuna distinzione fra aderenti al sufismo (mutasawuffùn) shi°iti o sunniti.

Ciò è di per se prova evidente, prosegue Akhtar, che nell’ambito del tasawwuf le differenze di scuola scompaiono. Qàdì Nùru’Llàh Ash-Shùshtarì, celebre in India ed in Pakistan con l’appellativo shahid-e thàleth (il terzo martire), pur essendo uno sciita rigoroso, include nella sua narrazione delle personalità eminenti dello sciismo i nomi di Bishr al-Hàfì, Bà Yazìd al-Bastàmì, Shafì° al-Balkhì, Ibràhìm ibn Adham, Yahyà Mu°àdh ar-Ràzì, Abù Sarì Mansùr ibn °Amir, Sarì as-Saqatì, Junayd al-Baghdàdì, ash-Shiblì, Muhammad Sawàr, Sahl ibn °Abdi’Llàh at-Tustarì, Husayn ibn Mansùr al-Hallàj, Shaykh Ahmad Jàmì, Ibn al-Fàrid, Muhì’d-Dìn ibn al-°Arabì, Sadru ’d-Dìn al-Qùnawì, Najmu ‘d-Dìn Kubrà, Sa°du ‘d-Dìn Rùmì, Shaykh Sa°sì ash-Shìràzì, Hàfiz, Awhadu ‘d-Dìn al-Maràghì, °Alà’u ‘d-Dawlah as-Simnànì, assieme a quelli di altri eminenti poeti ed iniziati sufi, dei quali è fatta menzione assieme a noti gnostici sciiti, quali Kumayl ibn Ziyàd, Buhlùl al-°Aqùl, Shihàbu ‘d-Dìn Sohravardi al-Maqtùl, Sayyid Haydar al-°Amulì”.

Va rammentato che il Qàdì Nùru’Llàh ash-Shùshtarì fu condannato a morte dietro accusa di essere uno strenuo sostenitore della fede sciita. La sua piena adesione a tale dottrina è evidente da opere quali Majùlisu ‘l-mu’minìn e Ihqàqu ‘l-haqq. Vediamo tuttavia che, per quanto attiene all’esoterismo, egli mette da parte ogni atteggiamento ostile nei confronti delle altre scuole. Ciò dimostra come la gnosi possa essere punto di convergenza fra le scuole.

In conclusione Wahid Akhtar afferma: “Ciò che distingue gli gnostici sciiti dai sufi in genere per quanto attiene all’orientamento verso Allah (SwT) e verso la coscienza dell’anima è il ruolo primario attribuito all’intelletto nel conseguimento della gnosi”.

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