IPOTESI SUL RITORNO DI CRISTO NELLA TERRA PROMESSA INDIANA
Mirza Ghulam Ahmad (Qadian 1835 – Lahore 908) fondatore del movimento della Ahmadiyya nel 1989 affermò che Yuzasaf era in realtà Gesù di Nazaret, arrivato in Kashmir (dal sanscrito Terra Promessa) dopo essere sopravvissuto alla crocifissione.
Il movimento Ahmadiyya suggerisce un'interpretazione della resurrezione di Gesù, secondo la quale Yuzasaf (nome con cui è chiamato Gesù stesso) sarebbe stato crocifisso e sarebbe sopravvissuto 4 ore sulla croce, quindi si sarebbe ripreso dal suo svenimento all'interno della tomba in cui era stato deposto. Fuggito in terra kashmira, ci sarebbe morto in tarda età mentre era alla ricerca delle Dodici tribù perdute d'Israele.
Egli, insieme al santo Syeduddin, riposerebbe nella tomba del santuario Roza Bal situato nel quartiere di Srinagar, in India e venerato dagli Ahmadiyya. Il poeta sufi poeta sufi Khwaja Muhammad Azam Didamari (1747) narrava della venuta di un profeta dalla pelle bianca.
Alcuni sostengono invece che Yuzasaf sia il nome arabo di Siddharta nella leggenda di Barlaam e Josaphat, ciò porterebbe a confondere Kashmir e Kushinara, luogo della morte di Buddha.
A riguardo Beskow nel suo ''Jesus i Kashmir: Historien om en legend'' (Gesù nel Kashmir: storia o leggenda)'' (1981) ha affermato che Mirza Ghulam Ahmad travisò le tradizioni su Gautama Buddha nella leggenda di ''Bilawhar wa-Yudasaf'' reputando che parlassero di Gesù. Beskow ha poi aggiornato le sue conclusioni nel 2011: "Durante la trasmissione della leggenda, questo nome sostenne diversi cambiamenti: in Budhasaf, Yudasaf e infine in Yuzasaf. In greco il suo nome è Ioasaph; in latino Josaphat”.
Il movimento della Ahmadiyya propone una identificazione di Gesù con il santone Yuz Asaf. L'interpretazione tradizionale islamica della morte di Gesù non propone anni successivi al suo decesso, poiché si basa sulle affermazioni del Corano 4:157–158, e quindi la maggioranza dei mussulmani crede che Gesù ascese al cielo senza essere stato crocefisso e Dio trasformò un'altra persona (a volte interpretata come Giuda Iscariota o Simone di Cirene) in modo che apparisse esattamente come Gesù e venisse crocefisso al posto suo.
Alcune interpretazioni del hadíth e di altre tradizioni narrano della continuazione della vita di Gesù. Lo sciita Ibn Bābawayh al-Qummī (m. 991 e.v.) nel suoIkhmāl al-Dīn racconta che Gesù si diresse verso un paese lontano, senza peraltro fornire alcuna fonte attendibile. Secondo Mirza Ghulam Ahmad, gli ulteriori pronunciamenti di Maometto affermano che Gesù morì nel Kashmir all'età di centoventi anni. Mirza Ghulam Ahmad afferma che Gesù "svenne" sulla croce, venne poi rimosso e curato dalle sue ferite con un unguento speciale chiamato marham-i ʿĪsā (unguento di Gesù).
La base teologica della convinzione ahmadiana scaturisce dalla frase biblica (Deuteronomio 21:23): ''kī qilelat Elohim taluy'',"... perché l'appeso è una maledizione di Dio” e Mirza Ghulam Ahmad dice che "Dio non avrebbe mai permesso che uno dei suoi veri profeti venisse brutalmente ucciso in una tale degradante maniera come la crocefissione".
In Srinagar, nel Kashmir si trova il monumento tradizionalmente indicato come il santuario di Roza Bal «la tomba di ‘Īs» (nome simile a quello con il quale i musulmani chiamano Gesù, ''ʿĪsā ibn Maryam''), il luogo dove si trovano le spoglie mortali di ''Yuz Asaf'' (nome indiano buddista), ''il profeta venuto dall'occidente''. Egli avrebbe annunciato la venuta di Maometto dopo di lui: cosa che i cristiani avrebbero male interpretato. Gli gnostici pensano che questa interpretazione della resurrezione di Gesù sia forse ispirata dal docetismo.
Il filosofo Arthur Schopenhauer (1788 – 1860) sosteneva che Cristo durante la permanenza in Egitto sarebbe entrato in contatto con dei bramini induisti; ventisette anni dopo la morte del grande pensatore tedesco, il dottore e giornalista russo Nicolas Notovich nel corso di un lungo viaggio attraverso i Balcani, il Medio Oriente, la Persia, l'Afghanistan e l'India, giunse nel Ladakh, il cosiddetto "Piccolo Tibet". Da lì, egli intendeva fare poi ritorno in Russia passando per le gole del Karakorum e i vasti spazi semidesertici del Turkestan Orientale, allora - come oggi - parte del dominio cinese. Il suo passaggio è comprovato dai registri della Missione dei Fratelli Moravi di Leh, presso la quale fu ospite; pertanto quella parte del suo viaggio si deve ritenere storicamente accertata al di là di ogni dubbio.
Durante la visita a un monastero buddhista, Notovich venne a sapere che, negli archivi di Lhasa, sarebbero esistiti documenti relativi alla vita di Gesù Cristo e che ne esistevano copie e traduzioni presso diversi altri monasteri. Poi, durante una visita al monastero di Hemis, nei pressi della capitale del Ladakh, Leh, l'abate, gli rivelò che in esso si trovava appunto una copia dei documenti in questione. Qualche tempo dopo, trattenuto colà per le conseguenze di una caduta da cavallo, il russo si fece leggere dall'abate, e tradurre da un interprete, quell'antico manoscritto tibetano, trascrivendolo mano a mano che gli veniva letto il suo contenuto. Tale ipotesi è stata ripresa e divulgata in occidente in tempi relativamente recenti dagli scritti dell'ufologo Andreas Faber-Kaiser. Il superiore del monastero di Hemis nel Distretto di Leh del Ladakh indiano, alle richieste degli studiosi occidentali, affermò però di non aver mai incontrato Notovich, e lo denunciò come impostore. Il manoscritto, non è mai stato visto né mostrato a nessuno.
Tornato in Europa, per alcuni anni Notovich cercò il modo di pubblicarlo, ma ne venne sconsigliato - a suo dire - da eminenti personaggi sia del clero ortodosso, sia di quello cattolico, con i quali aveva preso contatti fra Kiev, Roma e Parigi.
Anche Ernest Renan, autore del celebre «Vita di Gesù», mostrò un vivo interesse per quanto sostenuto da Notovich, tanto da offrirsi di prendere su di sé il lavoro della revisione e della pubblicazione; ma il russo declinò l'offerta, non volendo lasciarsi sfuggire una così ghiotta occasione di rendere celebre il proprio nome.
Così, nel 1894, egli decise a dare alle stampe il testo del manoscritto buddhista concernente la vita di Issa, (Gesù Cristo). Tuttavia, in parte per l'imperizia filologica di Notovich e in parte perché l'ipotesi di un soggiorno di Cristo in quelle remote contrade dell'Asia sembrò inverosimile a tutti gli studiosi di scienze bibliche, sia di formazione cattolica e protestante, sia di formazione laica, il libro passò relativamente inosservato e, poco a poco, finì per venire pressoché dimenticato.
Nel manoscritto pubblicato «La vita di San Issa, il migliore dei figli degli uomini», si afferma non che Cristo sfuggì alla morte di croce e si rifugiò ai piedi dell'Himalaia, come vorrebbe la tradizionale orale di cui dopo parleremo; bensì che egli lasciò la Palestina, all'età di tredici anni, e si unì a una carovana di mercanti che, attraverso la Mesopotamia e la Persia, lo condusse fino al Sindh, ove ebbe modo di studiare la dottrina buddhista.
Un anno dopo, declinando l'invito dei giainisiti a fermarsi presso di loro, passò in un'altra regione dell'India e si dedicò allo studio dei «Veda», sotto la guida di sacerdoti brahmini. Dopo sei anni passati fra Benares, Jagarnath e Rajagriha, entrò in conflitto con i brahmini, perché, avendo iniziato a predicare, si rivolgeva anche ai fuori casta. Insegnava ad aiutare i poveri, a sostenere di deboli, a non fare nulla di male e a non desiderare le cose altrui; e, soprattutto, a non adorare una quantità di idoli, ma a rivolgere ogni preghiera al Dio unico ed eterno.
Con parole esplicite, egli accusava i sacerdoti di essersi allontanati dalla vera divinità e di insegnare false dottrine ai fedeli; invitava tutti ad astenersi dai sacrifici di esseri viventi, a non rubare e a non mentire. Poi, forse per i contrasti coi sacerdoti, Issa lasciò l'India e passò in Persia, ove predicò con veemenza il monoteismo e rimproverò ai seguaci di Zoroastro ad adorare il Sole, che è soltanto una delle opere del Creatore. Anche qui andò incontro all'ira dei magi, che cercarono - ma senza riuscirvi - di farlo morire. Così, all'età di ventinove anni, rientrò nella sua terra d'origine, la Palestina, ove riprese la sua predicazione, incontrando il favore sia del popolo che dei sacerdoti.
Il manoscritto tibetano pubblicato da Notovich si compone di quattordici capitoli e tratta di una versione del processo e della passione di Cristo che scagiona completamente gli Ebrei da ogni responsabilità, per farla ricadere solo ed esclusivamente sul governatore Ponzio Pilato.
Non solo: i sacerdoti e gli anziani del popolo avrebbero tentato, secondo questo racconto, di intercedere per la salvezza di Cristo, ma non sarebbero stati ascoltati; allora essi, e non Pilato, avrebbero compiuto il gesto altamente simbolico di lavarsi le mani e di proclamarsi innocenti del sangue di un giusto. Notovich, prima di convertirsi al cristianesimo greco-ortodosso, di cui divenne un fervente seguace, aveva professato il giudaismo: ciò può essere considerato un elemento casuale, ma potrebbe anche alimentare qualche sospetto circa un così completo ribaltamento del racconto evangelico, secondo il quale furono i capi del Sinedrio a perseguire ostinatamente la condanna a morte di Cristo, mentre Pilato, al contrario, avrebbe cercato in ogni modo di difenderlo e di salvargli la vita.
Però si tratterebbe di sospetti infondati, perché Notovich, nei suoi scritti successivi, si fece notare per uno spiccato antisemitismo, tanto da ottenere una citazione nel «Mein Kampf» di Adolf Hitler.
Ad ogni modo, il libro di Notovich non passò completamente inosservato.
Se vi furono alcuni critici i quali misero in dubbio l’esistenza del manoscritto in questionee, addirittura, che Notovich fosse mai stato nel Ladakh, vi fu anche una figura eminente di studioso e di maestro spirituale che volle sincerarsi di persona di quanto vi fosse di vero nel racconto del viaggiatore russo,. Parliamo dello swami Abedhananda (1866-1939), che fu discepolo diretto di sri Ramakrishna (1836-1886), uno dei maggiori santi indiani dei tempi moderni.
Abedhananda si recò nel Ladakh nel 1922, proprio dopo aver letto il libro di Notovich; e si presentò anch'egli al monastero di Hemis per verificare se il manoscritto tradotto dal russo esistesse realmente. Le conclusioni della sua ricerca vennero pubblicate nel 1929, in un volume intitolato «Kashmir O Tibbate» in cui veniva sostanzialmente confermata l'attendibilità del lavoro svolto da Notovich. Anche allo swami Abedhananda era stato mostrato il manoscritto in lingua tibetana che parlava del santo Issa e gli era stato spiegato che si trattava di una tradizione dalla lingua pali, in cui era redatto il testo originale, conservato nel monastero di Marbour, nei pressi di Lhasa. Sul libro di Adehananda è stato pubblicato anche un libro di Ansupati Dasgupta e Kunja Bihari Kundu, «Il viaggio di swami Abhedananda in Kashmir e in Tibet», pubblicato a Calcutta dal Ramakrishna Vedanta Publication Department. Oltre a ciò, esiste una tradizione orale, fra gli indiani di religione musulmana del Kashmir, secondo la quale Gesù Cristo, localmente chiamato Yuz Asaf, avrebbe soggiornato fra quelle montagne e vi sarebbe morto. Anche un autore indiano contemporaneo, esperto in lingua e letteratura urdu, Aziz Kashmiri, ha scritto un libro, intitolato «Cristo in Kashmir», che recentemente è stato tradotto anche in italiano (Edizioni Atlantide, Pogliano Milanese). E un regista, Richard Bock, ha realizzato nel 1975 un documentario in cui, sulla base del libro di Notovich, sostiene la tesi del soggiorno di Cristo durante i suoi «anni nascosti». Oltre a Notovich e a swami Abhedananda, un terzo personaggio - gran conoscitore dell'Asia centrale, della sua spiritualità e dei suoi misteri - avrebbe visto e confermato la genuinità del prezioso documento del monastero di Hemis: Nicholas Roerich.
Pur con tutto ciò, non ci sembra che esistano, allo stato attuale delle cose, elementi sufficienti per considerare come certa e storicamente dimostrata la presenza di Gesù Cristo fra le montagne del Kashmir e del Tibet; né il manoscritto di Notovich, né le tradizioni orali sono, di per sé, elementi assolutamente probanti. Il punto veramente decisivo dell'intera questione è quello relativo alla collocazione cronologica del supposto viaggio di Cristo in Oriente.
Se esso si deve collocare dopo la crocifissione, allora tutta la storia del cristianesimo andrebbe radicalmente rivista. Il racconto dei Vangeli e degli altri testi del Nuovo testamento non sarebbe che un travisamento, più o meno consapevole, della realtà, perché Cristo, il Messia, non sarebbe morto sulla croce. Le conseguenze teologiche sarebbero immense: niente resurrezione, niente divinità di Gesù, almeno nel senso in cui la intendono i cristiani (per i buddhisti, la cosa è diversa: si sarebbe trattato di una manifestazione dell'essenza divina, come si evince dal capitolo XIV del manoscritto). La tesi della sopravvivenza di Cristo al supplizio della croce non è nuova: se ne era molto parlato, in particolare, nel 1965, allorché apparve il libro «The Passover Plot» (traduzione italiana: «Cristo non voleva morire», 1968) dello scrittore ebreo-americano Hugh J. Schonfield, che venne preso sul serio, e sia pure come ipotesi di lavoro, da storici di un certo prestigio, come Bontempelli-Bruno (nella loro opera in due volumi «Il senso della storia antica»).
Invece Marcello Craveri, nel suo fortunato (e pur contestato) «La vita di Gesù», irride all'ipotesi che Cristo abbia viaggiato fino all'Himalaia, venendo a contatto con le religioni di Buddha e Zoroastro. Quanto alla morte sulla croce, non ne dubita affatto, anche se - da un punto di vista razionalista, qual è quello che egli adotta - esclude la risurrezione e la considera un racconto leggendario basato sulle forti aspettative messianiche dei suoi discepoli.
Da parte nostra, ci sembra che un soggiorno di Cristo nel Ladakh dopo la sua crocifissione sia da ritenersi inverosimile, non per un preconcetto religioso, ma perché non possiamo accettare l'idea che i racconti neotestamentari sulla passione di Cristo (e lasciamo impregiudicato, da un punto di vista storico, l'evento della resurrezione) siano il frutto di una sapiente trama di invenzioni o di un incredibile e colossale abbaglio collettivo. Senza pretendere di sbrigare qui, in poche righe, una questione di così grande portata, riteniamo inammissibile che una cosa del genere sia potuta verificarsi, quando centinaia e centinaia di testimoni oculari erano ancora viventi e avrebbero potuto così facilmente smentire il fatto della morte sulla croce, se esso non fosse realmente avvenuto.
Né la scomparsa del cadavere, così come è narrata dagli stessi evangelisti, ci sembra possa interpretarsi nel senso che Cristo venne portato nel sepolcro ancora vivo e, poi, accompagnato lontano, per mettersi in viaggio verso la Persia e l'India: ciò sa più di un cattivo copione per un film alla «Indiana Jones», che di una seria ipotesi storica.
Vi erano troppi testimoni oculari dei fatti, ripetiamo, perché una eventuale sopravvivenza di Cristo alla crocifissione (nonostante il colpo di lancia!) e, addirittura, una sua fuga in paesi remoti dell'interno dell'Asia potessero passare inosservate, in un ambiente ristretto e curioso come lo era la Palestina dell'epoca. Se, viceversa, si immagina di collocare il supposto viaggio di Cristo in Oriente prima dell'inizio della sua vita pubblica e cioè durante i cosiddetti «anni nascosti» - circa i quali quasi nulla sappiamo - la cosa, per quanto estremamente improbabile, può acquistare una certa plausibilità o, almeno, essere presa in considerazione. La tradizione orale esistente in Kashmir e relativa al soggiorno di Cristo, corredata dalla tomba del santo Issa, e lo stesso manoscritto di Notovich (il cui originale, come abbiamo visto, si trovava in un monastero presso Lhasa ed era redatto in pali) potrebbero - e sottolineiamo il condizionale - essere una eco tarda e deformata di un viaggio di Cristo in Oriente avvenuto, appunto, prima dell'inizio della sua missione pubblica. Dal punto di vista teologico, il minimo che si possa dire è che fra l'etica della compassione insegnata da Buddha e quella predicata da Cristo non vi sono differenze sostanziali; questo, però, non basta, ovviamente per ipotizzare che il buddhismo sia entrato a far parte del bagaglio culturale di Cristo prima dell'inizio della sua vita pubblica, né - tanto meno - che egli abbia attinto la conoscenza di esso mediante un viaggio da lui personalmente compiuto fino in India, nel Kashmir ed in Tibet.
Non è sufficiente, infatti, una somiglianza puramente esteriore per dedurre la derivazione di una religione da un'altra e neppure un contatto diretto fra esse; non più di quanto - se ci è permesso il paragone - la presenza di due strutture linguistiche simili in due regioni lontane del globo, non autorizzi a pensare che esse abbiano avuto una radice comune - almeno, si intende, in mancanza di altri e più precisi elementi di riscontro. La possibilità di un soggiorno di Cristo in Kashmir e in Tibet nella prima parte della sua vita rimane, dunque, una questione aperta.
Né ci sembra che, su di essa, abbia gettato sufficiente luce il libro di Fida M. Hassnain «Sulle tracce di Gesù l'Esseno», che pure tanto rumore ha prodotto al suo apparire, ma quasi soltanto negli ambienti degli esoteristi e presso certi cultori New Age di novità sensazionali ad ogni costo. Ci ripromettiamo, peraltro, di tornare sull'argomento con uno studio specifico.
Per intanto, quello che obiettivamente si può dire è che una ipotesi assai suggestiva, ma assolutamente non dimostrata, è quella che vorrebbe Gesù Cristo studiare e predicare il suo messaggio nella regione ai piedi del Karakorum, assorbendo elementi dello zoroastrismo, del buddhismo e del brahmanesimo, e rifondendoli in un originale sincretismo rigorosamente monoteista e con forti connotazioni sociali, particolarmente diretto alle classi più umili e marginali o, addirittura, ai fuori casta dell'India.
Della confutazione delle affermazioni di Notovich si occuparono, all'epoca, il teologo statunitense Edgar J. Goodspeed, l'orientalista tedesco Max Müller e un non meglio identificato professor J. Archibald Douglas. La tesi di Gesù morto in India è sostenuta anche da Omraam Mikhaël Aïvanhov e, secondo Paramhansa Yogananda Gesù sarebbe vissuto in India dai 13 ai 30 anni circa (anni di cui i Vangeli sinottici non parlano), benché entrambi i maestri spirituali si limitino a citarla senza approfondire l'argomento.
Tali studi e ipotesi non sono sufficienti per definire in modo chiaro e definitivo una tesi che richiede ancora molti approfondimenti e ricerche più fondate.