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Sibilla Vecchiarino

VIRABHADRASANA. LO YOGA DEL GUERRIERO


Una delle pose ad oggi più conosciuta e praticata nello Yoga, specie negli approcci più fisici, è la posa del guerriero, Virabhadrasana, nelle sue 3 varianti.

Il racconto mitologico

Sati era la prima delle 60 figlie di Daksha, il Signore del sacrificio, ed era andata sposa a Shiva su ordine di Brahma. Daksha però non amava il genero e aveva subito l’ordine di Brahma, suo padre. Un giorno Daksha si recò a celebrare un sacrificio, al suo ingresso tutti si alzarono in piedi in segno di rispetto, ma non Shiva. Daksha si sentì offeso, non consentì al genero di prendere la sua porzione di sacrificio e non lo invitò più ai sacrifici, umiliandolo pubblicamente. Sati, irata per l’esclusione del marito, si recò dal padre e si uccise bruciando nel fuoco sacrificale (rifiutando, quindi, quel corpo che il padre le aveva donato). Shiva fu sconvolto dalla morte della sposa. Si recò nel luogo dove lei era bruciata e si cosparse sul corpo le sue ceneri. Poi realizzò la propria vendetta, una vendetta che doveva essere definitiva, doveva segnare un prima e un dopo. Il grande dio si strappò un capello e da esso nacquero Virabhadra e Mahakali mostri tremendi che, alla guida di una folla di esseri violenti, attaccarono gli dei e il sacrificio. Distrussero ed uccisero senza sosta finchè Virabhadra non tagliò la testa di Daksha. Gli dei non poterono far altro che rifugiarsi presso Brahma al quale riferirono ciò che era accaduto. Brahma allora, insieme a tutti gli altri dei si recò a chiedere perdono a Shiva, venerandolo e promettenfogli che avrebbe avuto parte del sacrificio. Si recarono quindi sul campo di battaglia. Il corpo di Daksha senza testa giaceva in terra. Su ordine di Shiva misero sul corpo di Daksha la testa di un caprone, l’animale sacrificale. Poi Shiva guardò Daksha e in questo modo gli ridiede la vita. Il sovrano ringraziò con devozione Shiva e lo chiamò Shankar, il benevolo.

Secondo la leggenda Virabhadra fece il suo ingresso facendosi largo con la sua spada impugnata con entrambe le mani tese sopra la testa proprio come in Virabhadrasana I. Dopodiché puntò la spada in avanti pronta a colpire in quella che lo yoga chiama Virabhadrasana II. Infine sollevò la spada verso il cielo e seguendo le istruzioni a distanza di Shiva mozzò il capo del re Daksha: Virabhadrasana III.

Daksha, secondo un’interpretazione simbolica del mito, rappresenta l'ego. Sati simboleggia il cuore, che si innamora e quindi è totalmente proteso, verso il sé più alto, Shiva. La battaglia è quella interiore, la lotta di ogni uomo contro le sue cattive tendenze, il falso sé e, fondamentalmente, l’Avidya, ossia l’ignoranza o cattiva percezione di come stanno le cose.

L’Asana: Virabhadrasana

Virabhadrasana nelle sue varianti (I,II e III) è una asana molto potente che impegna fortemente tutto il corpo stimolando tutti i chakra e i relativi contenuti psichici che li caratterizzano.

L'Archetipo è quello dell'EROE, VIRAT (in latino la parola VIR indica "forza" da intendersi come "forza interiore" che non si tira indietro davanti agli ostacoli inevitabili della vita), quindi un archetipo che sviluppa ENERGIA (prana), forza, stabilità.

Gli effetti dell’asana sui chakra:

  1. permette di rafforzare il Muladhara (elemento terra). Se manca l'appoggio nella vita delle nostre convinzioni interiori, l'elemento terra rischia di franare e lasciare il vuoto sotto di noi.

  2. Impegna Svadhistana (elemento acqua), attraverso il controllo e la stabilità delle emozioni, che possono degenerare nella paura o nella perdita dell'energia attraverso un uso smodato della sessualità.

  3. Stimola Manipura per sviluppare il "fuoco" (tejas) necessario all'azione (kriya).

  4. Rafforza Anahata, il cuore, chiamato a sviluppare il coraggio (in latino cor agere = agire con il cuore =coraggio); senza cuore e coraggio non si va da nessuna parte.

  5. In Ajna è fisso lo sguardo interiore del Virat, la sua volontà è catturata, insieme all'attenzione e concentrazione (dharana) dal bersaglio, la sua divinizzazione. Solo così egli può vincere i suoi draghi interiori, liberare (moksha) la sua anima dalle passioni del Jivan (il piccolo sè incatenato alle false personalità che si è costruito con cui si è via via identificato) e, quindi, accedere al "tesoro", l'illuminazione, lo stato "unitivo" reintegrando le sue parti oscure: i suoi draghi si trasformano nella sua forza. Allora il Virat può finalmente riposare la spada e godere nel suo "Regno dei Cieli”. In ogni chakra si "cela" (da cui la parola cielo = nascondere) un Regno (un Loka = stato di coscienza).

Questo è il combattimento di ogni Yogi seriamente impegnato sulla "via" (marga)! Come ogni buon guerriero che si appresti alla battaglia non bisogna dimenticare di indossare una corazza di "Luce" (sattva) costituita dalla lettura e dall'apprendimento delle "sacre scritture"; dal "calore" (tapas) della fede (shraddà) e dalla volontà (icchà) determinata.

Il significato di Virabhadrasana oltre l’asana

Il mito del guerriero cantato nella Bhagavad Gita appare distante anni luce dal nostro vivere quotidiano, invece chi pratica lo Yoga sa nel profondo che non è così. Nel trasformare sé stessi è necessario fare i conti con l’archetipo del guerriero. Diverse battaglie attendono l’aspirante yogi. Possono cambiare gli scenari, ma in ogni scontro l’eroe dovrà combattere con una parte di sé stesso. Gli kṣatriya, nella società vedica, costituivano quella casta guerriera al cui interno erano scelti i re, i reggenti delle province o i comandanti dell’esercito. Secondo gli indologi si caratterizzavano per il furor guerriero, erano pronti alla morte e avevano nell’arco la loro arma principale.

Ogni giorno tutti combattono la propria personale battaglia. A volte le cose sembrano fluire lisce come l’olio, mentre altre volte tutto sembra rivolgersi contro. Allora l’ostinazione e il non perdersi d’animo diventano formidabili alleati da tenere in grande considerazione.

Il lavoro su di sé evoca i più temibili avversari. Quei nemici, che nell’ombra agiscono indisturbati da tempi immemorabili, sono pronti ad impedirci di vivere in maniera serena e gioiosa. La trasformazione della personalità passa dallo spodestare dal trono quelle emozioni distruttive che regnano senza averne diritto.

Le ferite presenti nell’animo ci tengono legati ad un passato che sembra invincibile. Pur nella difficoltà dell’impresa vale sempre la pena il combattere la propria battaglia. Non importa quali siano le probabilità e le finalità della battaglia, l’importante è combatterla bene. Prima o poi le vicissitudini della vita ci porteranno a comprendere che non si diviene guerrieri richiamando il pericolo, ma andando in fondo alle situazioni che si presentano alla nostra porta. Ed è proprio quando tutto sembra perduto che, come per magia, si apre la possibilità della vittoria.

Nel perdere terreno sotto i piedi, si scivola sempre più verso la resa dei conti. Nel cedere le proprie barriere diviene sempre più stringente l’incontro con l’altro con tutto ciò che ne comporta. Il vero guerriero non combatte per sé stesso ma per un principio più grande che è insito in ognuno: Il Dharma, la Legge.

“ Considera il tuo dovere, non farti prendere dall’emozione, non c’è nulla di meglio per lo kshatrya che una giusta battaglia” ( BG II,31)

La giusta battaglia arriva da sé. Quando il lavoro su sé stessi sembra essere ad un punto morto, il nemico si presenta travestito da virtù. Così farai fatica a riconoscerne la potenzialità distruttiva, ma è proprio in questo momento che è necessario ingaggiare una lotta serrata con sé stessi perdendo di vista il nemico esterno.

“ Quando una simile battaglia si offre così naturalmente, è come se si aprissero le porte del cielo; felici sono gli kshatriya, o figlio di Pritha” (BG II, 32).

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