MANDEL'STAM. IL RUSSO INNAMORATO DI DANTE
Per Mandel’štam la poesia è un «legame che mai si potrà sciogliere / fra tutto ciò che vive nel creato»; essa non è imitazione della natura, ma una sua nuova creazione; la durata della poesia è durata vitale, che amplia il tempo. La poesia è una creazione organica, flusso ed energia: mero strumento affilato e potente che grazie alla parola permette di costeggiare l’epoca del potere folle, il mare nero del secolo.
Mandel’štam viene mandato in esilio (dopo l’arresto nel 1934) a seguito di una satira poetica che dedica a Stalin in persona; «il montanaro del Cremlino», dalle dita tozze e grasse «come vermi», dagli «occhiacci da blatta». Nel 1937 cercando di salvare il salvabile tenta di scrivere (senza eccessi di servilismo) un’ode allo stesso Stalin che successivamente lo stesso poeta ripudierà.
Nel 1938 viene deportato in Siberia e imprigionato in un campo di transito, dove morirà nel mese di dicembre dello stesso anno.
Nonostante ciò Mandel’štam scriverà: «Per qualche tempo ancora proverò meraviglia / del mondo, dei bambini, della neve, / ma come una strada è aperto il mio sorriso, / non docile, non servo…».
Mandel’stam soffriva come un flagello la condizione dell’uomo come animale sociale: egli non concepiva che si dovessero avere legami col potere politico, con un‘istituzione che pretendeva di collocarsi al di sopra della libertà e della ragione umana: “Col mondo del potere non ho avuto che vincoli puerili” (versi che Pasolini ripeterà spesso).
Anche se egli leggeva Petrarca, Ariosto e Tasso, il suo amore era soprattutto per Dante Alighieri al quale dedicò uno studio totale e a tratti perfino ossessivo.
Nel 1933 da alla luce il testo “Conversazione su Dante” dettato nel 1933 all’amata moglie Nadežda, la quale ebbe il merito di salvare molte poesie dell’ultimo periodo per essere pubblicate postume.
A differenza del poeta russo che tanto l’amava, Dante non abbandonò mai l’abito politico; né la sua ostinata parola letteraria, nella Commedia come nei trattati e nelle Epistole, venne mai meno alla sua funzione profetica ed esoterica.
Mandel’štam ha un temperamento ontologicamente inquieto; è un randagio che ama viaggiare, ogni volta tornando a disegnare una mappa di nomi e luoghi sempre identici; ma investiti di un’intensità lirica capace di trasformarli in tappe d’una geografia visionaria, fisica e spirituale.
Essere è per lui come leggere; un lavoro interminabile, che a misura dei nostri successi ci allontana dalla metaScrive: “Se la prima lettura non dà che un po’ di affanno e una sana spossatezza, per quelle successive munitevi d’un paio di scarponi svizzeri ben chiodati.” Mandel‘stam si stringe a Dante accomunato dall’esperienza dell’esilio come testimoniato in una pagina autografa di incerta datazione, un cartiglio sul quale il poeta russo ha trascritto le prime terzine del canto VIII del Purgatorio, definite “l’elegia dell’esule”.
Mandel’stam parla di sé attraverso Dante; legge e studia la Divina Commedia fermandosi a trascrivere quei versi struggenti nei quali Dante intona il pianto elegiaco che punge di malinconia il cuore dei pellegrini d’amore: i “navicanti” delle incerte rotte dell’esilio, sospinti verso l’ignoto e condannati a sentire in lontananza il pianto musicale della “squilla”, la campanella dell’ultima ora che fa tremare l’aria di tenerezza e porta il ricordo dell’addio ai “dolci amici” in patria. Come in uno specchio, Mandel’stam fa suoi questi versi del Purgatorio, li metabolizza e li proietta nel suo canto lirico, prosciugandone l’afflato elegiaco in un timbro più fermo e desolato; così scrive: “Ho imparato la scienza degli addii / nel piangere notturno, a testa nuda.” Tale scienza è la presa di coscienza che non esiste scrittura tessuta sulla gioia, perché la gioia parla una lingua povera e manchevole. Si inizia a scrivere imparando la lingua del dolore e della perdita; guardando le cose da lontano, trafitti da una puntura malinconica. Cercando di assottigliare il peso di orfanità che ci abita. Cavando dall’esistenza una ‘scienza’ che nel poeta è ammaestramento del cuore in lotta contro l’aridità.
Mandel’stam è il poeta che si percepisce assente nel proprio secolo che cerca costantemente attraverso la sua opera un interlocutore nel passato; tale figura enfia di poesia, ricca di nobiltà, solida e fraterna; ma soprattutto modello etico oltre che estetico e compagno di strada col quale condividere un colloquio non può essere che il suo amato Dante.
La Conversazione, scritta gridando “colla faccia levata” nella Crimea degli anni Trenta, è punteggiata di apostrofi, di interrogativi, di aperture emotive. Di camuffate identificazioni autobiografiche che portano questo poeta russo a immaginare il cammino di Dante in esilio, a seguirlo passo passo in un suo intimo sogno.
Per il poeta russo l’Inferno, e ancor di più il Purgatorio, celebrano la camminata umana, la misura e il ritmo dei passi, il piede e la sua forma. Del passo, congiunto alla respirazione e saturo di pensiero, Dante fa un criterio prosodico. Egli designa l’andare e venire ricorrendo a un gran numero di espressioni multiformi e affascinanti. In Dante, filosofia e poesia sono sempre in cammino, sempre in piedi. Anche la sosta è una varietà di movimento: la piattaforma per una conversazione viene creata a prezzo di sforzi da alpinista. Il piede metrico è inspirazione ed espirazione: è il passo. Un passo che deduce, vigila, sillogizza. All’origine di quell’invenzione tecnica straordinaria che è la terzina a rime incatenate c’è la camminata dell‘homo viator. Il passo dell’esiliato Dante si trasmuta in un incedere metrico attraverso il quale si direziona in modo geniale e unico quel variatissimo fascio di scorrimenti profondi di cui è innervata la Commedia. Nella Conversazione Mandel’stam si sofferma sull’invenzione della terzina capace di creare una concatenazione che ordisce il discorso poetico ma che soprattutto è l’elemento unificatore della materia poetica, a riguardo l’autore russo afferma: “Cercando di penetrare, per quanto possono le mie forze, nella struttura della Divina Commedia, giungo alla conclusione che tutto il poema costituisce un’unica strofa, unitaria e indivisibile” .
Angelo Maria Ripellino nella sua “Nota sulla prosa di Mandel’stam” afferma: “Il sogno di Mandel’stam è di costruire una prosa-Ermitage, o meglio (con locuzione a lui cara) cattedrali verbali, che siano luogo di convergenza e compendio di varie arti e branche dello scibile. E perciò comprime insieme ed incastra eterogenei strati culturali, trasponendo ora la musica in ottica, ora in botanica la pittura, con un’attenzione spasmodica al particolare, ai piccoli nulla. […] un pingue calligrafia a forti inchiostri, in cui le cose acquistano coscienza dei propri contorni e sentore di imprevedibili contiguità.” Su questa convergenza dialogante di linguaggi, appartenenti ad ambiti differenti, si struttura la Conversazione su Dante.
Mandel’stam che cercava la chiave del poema-poliedro, calibrato sulla perfetta unità tra poesia e struttura volle e seppe accedere ai livelli profondi del testo poetico andando al fondo dell’ “incessante metamorfosi del substrato di materia poetica, teso a conservare la propria unità e a cercar di penetrare all‘interno di se stesso”.