IDENTITA' E IMMIGRAZIONE NELL'EPOCA GLOBALIZZATA
Nell’attuale dibattito politico sull’immigrazione la questione dell’identità (nazionale, culturale, ecc.) ha un ruolo ormai centrale. Secondo Alain De Benoist quando si parla di identità della popolazione ci si riferisce prima di tutto a quella di chi accoglie e molto meno a quella degli immigrati, la quale è più minacciata, poiché in quanto minoritaria subisce la pressione dei modi di vita della maggioranza. De Benoist scrive: “Votata alla cancellazione, o al contrario esacerbata in modo provocatorio, la loro identità il più delle volte non sopravvive che in maniera negativa (o reattiva) in ragione dell’ostilità dell’ambiente d’accoglienza, o addirittura del supersfruttamento capitalista che si esercita su lavoratori separati dalle loro naturali strutture di difesa e protezione. Si è d’altra parte colpiti nel vedere come la problematica dell’identità sia posta, in certi ambienti, solo in correlazione con l’immigrazione”. La principale, se non la sola, “minaccia” che peserebbe sull’identità nazionale sarebbe rappresentata dalla presenza degli immigrati. De Benoisti afferma che: “Ciò vuol dire non tenere conto dei fattori che, ovunque nel mondo, nei paesi che contano una forte manodopera straniera come in quelli che non ne comportano alcuna, inducono una disgregazione delle identità collettive: primato del consumo, occidentalizzazione dei costumi, omogeneizzazione mediatica, generalizzazione dell’assiomatica dell’interesse ecc. È fin troppo facile, in questa percezione delle cose, ricadere nella logica del capro espiatorio”. Tuttavia, non è certamente colpa degli immigrati se gli europei non sono apparentemente più capaci di produrre un proprio modo di vita, né di dare al mondo lo spettacolo di una maniera originale di pensare ed esistere. Nemmeno è colpa degli immigrati, continua De Benoist, se il legame sociale si disfa ovunque grazie all’individualismo liberale; se la dittatura del privato fa svanire gli spazi pubblici che potrebbero costituire il crogiolo del rinnovamento di una cittadinanza attiva; tanto meno se gli individui, che ormai vivono nell’ideologia della merce, diventano sempre più estranei alla loro natura. In Francia, per esempio, afferma De Benoist: “Non è colpa degli immigrati se i francesi formano sempre meno un popolo, se la nazione diventa un fantasma, se l’economia si mondializza e se gli individui non vogliono più comportarsi come attori della propria esistenza, ma sempre più accettano che si decida al loro posto a partire da valori e norme che essi non contribuiscono più a formare. Non sono gli immigrati, infine, che colonizzano l’immaginario collettivo e impongono alla radio e alla televisione suoni, immagini, preoccupazioni e modelli “venuti da altrove”. Se c’è “mondialismo”, diciamo allora con onestà che, fino a prova contraria, è dall’altra parte dell’Atlantico che proviene, e non dall’altra parte del Mediterraneo”. Agli occhi di De Benoist il “contestato” piccolo negoziante arabo di generi alimentari contribuisce a conservare, in modo conviviale, l’identità francese più del parco divertimenti americanomorfo o del “centro commerciale” con capitali francesi. Lo studioso francese dice apertamente che: “Le vere cause della disgregazione dell’identità francese sono in effetti le stesse di quelle che spiegano l’erosione di tutte le altre identità: esaurimento del modello dello Stato-nazione, disagio di tutte le istituzioni tradizionali, rottura del contratto di cittadinanza, crisi della rappresentazione, adozione mimetica del modello americano ecc”. Inoltre, prosegue De Benoist, l’ossessione del consumo, il culto del “successo” materiale e finanziario, la scomparsa delle idee di bene comune e di solidarietà, la dissociazione dell’avvenire individuale e del destino collettivo, lo sviluppo delle tecniche, il progresso delle esportazioni di capitali, l’alienazione dell’indipendenza economica, industriale e mediatica, hanno da soli distrutto maggiormente l’“omogeneità” della popolazione francese di quanto abbiano fatto finora degli immigrati che non sono altro che gli ultimi a subirne le conseguenze. «La nostra identità», sottolinea il filosofo e logico Claude Imbert, «è molto più colpita dal crollo del civismo, più alterata dall’amalgama culturale internazionale dei mezzi di comunicazione, più logorata dall’impoverimento della lingua e dei concetti, più sconvolta soprattutto dalla degradazione di uno Stato un tempo centralizzato, potente e prescrittore che fondava in noi questa famosa “identità”». Insomma, continua De Benoist, se l’identità francese (ed europea) si disfa, è anzitutto a causa di un vasto movimento di omogeneizzazione tecnico-economica del mondo di cui l’imperialismo transnazionale o americanocentrico costituisce il vettore principale e che generalizza ovunque il non senso, ossia un sentimento di assurdità della vita che distrugge i legami organici, dissolve la socialità naturale e rende ogni giorno gli uomini più estranei gli uni agli altri. L’immigrazione giocherebbe piuttosto, da questo punto di vista, un ruolo di rivelatore; essa diventa lo specchio che dovrebbe permettere ai francesi (e agli europei) di prendere pienamente coscienza dello stato di crisi larvata nel quale si trovano e di cui l’immigrazione, più che la causa, rappresenta una conseguenza tra le altre.
De Benoist scrive: “Una identità si sente tanto più minacciata, in quanto si sa già vulnerabile, incerta, e, per farla breve, sconfitta. Per questa ragione non è più capace di fare affidamento su un apporto straniero per includerlo nel proprio. In questo senso, non è tanto perché in Francia ci siano degli immigrati che l’identità francese è minacciata; piuttosto, è perché questa identità è già largamente demolita che la Francia non è più capace di fronteggiare il problema dell’immigrazione, se non dandosi all’angelismo o predicando l’esclusione”.
Marco Tarchi in un’intervista rilasciata negli anni novanta al mensile “Un Città” affermava che solo colui che ha perso la propria identità può avere timore dell’altro e che la xenofobia altro non era che la conseguenza di una disintegrazione dell’identità, insomma se sai chi sei non puoi temere altro alcuno.
Xenofobi e “cosmopoliti”, continua De Benoist, si ritrovano d’altronde, alla fin fine, d’accordo nel credere che esiste una relazione inversamente proporzionale tra l’affermazione dell’identità nazionale e l’integrazione degli immigrati. I primi credono che una Francia più preoccupata o più cosciente della sua identità si sbarazzerà spontaneamente degli immigrati. I secondi pensano che il modo migliore per facilitare l’inserimento degli immigrati consiste nel favorire la dissoluzione dell’identità nazionale. Le conclusioni sono opposte, ma la premessa è identica. Gli uni e gli altri si sbagliano. Non è l’affermazione dell’identità francese ad ostacolare l’integrazione degli immigrati, ma al contrario la sua cancellazione. L’immigrazione costituisce un problema perché l’identità francese è incerta. Ed è al contrario grazie a un’identità nazionale ritrovata che si risolveranno le difficoltà legate all’accoglienza e all’inserimento dei nuovi venuti. Si vede in tal modo quanto sia insensato credere che basterebbe invertire i flussi migratori per “uscire dalla decadenza”. La decadenza ha ben altre cause e se anche in Francia non ci fosse un solo immigrato, i francesi si ritroverebbero comunque di fronte alle stesse difficoltà, ma stavolta senza capro espiatorio. Assillandosi sul problema dell’immigrazione, rendendo gli immigrati responsabili di tutto ciò che non va, si annullano nello stesso tempo una quantità di altre cause e di altre responsabilità. Si opera, in altri termini, un prodigioso dirottamento d’attenzione. Sarebbe interessante sapere a vantaggio di chi. Ma bisogna interrogarsi più profondamente sulla nozione di identità. Porre la questione dell’identità francese non consiste fondamentalmente nel chiedersi chi è francese (la risposta è relativamente semplice), ma piuttosto nel chiedersi cosa è francese. A questa domanda molto più essenziale, i cantori dell’“identità francese” si limitano in generale a rispondere con reminiscenze commemorative o evocazioni di “grandi personaggi” ritenuti più o meno fondatori (Clodoveo, Ugo Capeto, i crociati, Carlo Martello o Giovanna d’Arco), inculcati nell’immaginario nazionale da una storiografia convenzionale e devota. Ora, questo piccolo catechismo di una sorta di religione della Francia (dove la “Francia eterna”, sempre identica a se stessa, è da sempre pronta a ergersi contro i “barbari”, non definendosi il francese, al limite, altro che come colui che non è straniero, senza più alcuna caratteristica positiva che la sua non-inclusione nell’universo degli altri) ha rapporti abbastanza lontani con la storia di un popolo che in fondo non ha di specifico che il modo in cui ha sempre saputo fronteggiare le sue contraddizioni. In effetti, non è strumentalizzato che per restituire una continuità nazionale sbarazzata di ogni contraddizione in un’ottica manichea dove la mondializzazione (l’“anti-Francia”) è puramente e semplicemente interpretata come “complotto”. I riferimenti storici sono allora situati di primo acchito in una prospettiva antistorica, quasi essenzialista che tende meno a dire la storia che a descrivere un “essere” che sarebbe sempre lo Stesso, che si definirebbe solo mediante la resistenza all’alterità o il rifiuto dell’Altro.
In conclusione possiamo affermare che le identità odierne affermano se stesse non sulla base del proprio essere, ma in funzione di una contrapposizione con l’altro attraverso il quale ricostruiamo una identità non in senso affermativo ma in senso contrappositivo e quindi destinata a perire a priori. L’”io sono” a prescindere dall’altro permette il superamento della xenofobia ossia paura del diverso il quale non viene più vissuto o concepito come colui che ci può portare via ciò che non siamo per motivi estranei all’immigrazione, ma semplicemente a causa di una alienazione collettiva e generalizzata le cui cause sono prima di tutto da cercare nel mondialismo, nel capitalismo e nell’assenza di un disegno di appartenenza regolato da valori e principi sempre più incompatibili con il concetto di globalizzazione stesso.