SUFISMO IRANICO E VEDA. LA STRETTA DI MANO FRA IRAN E INDIA
La firma di importanti accordi ha segnato la visita in Iran del Primo Ministro indiano, Narendra Modi, il 22 e 23 maggio scorsi. Durante la trasferta iraniana, Modi ha incontrato il Presidente della Repubblica Islamica, Hassan Rouhani, e la Guida Suprema del Paese, Ayatollah Khamenei, oltre a numerosi alti funzionari. Nonostante la prossimità geografica, l’ultima volta di un Primo Ministro indiano in visita bilaterale in Iran fu 15 anni fa, quando ad atterrare a Teheran fu Atal Behari Vaypayee, anch’egli esponente del BJP (Bharatiya Janata Party– Partito del Popolo Indiano), il partito dell’attuale Premier.
Quest’incontro segna un importante avvicinamento tra i due Paesi, le cui reciproche relazioni si sono raffreddate negli ultimi anni nonostante secolari legami linguistici e culturali: basti pensare, ad esempio, che l’India ospita la seconda comunità sciita al mondo dopo l’Iran e l’influenza di quest’ultimo sui 45 milioni di Sciiti indiani non è trascurabile, senza dimenticare la presenza dei Parsi, persiani, che si rifugiarono tra il VII° e il X° secolo d.C. in principio nell'odierno Gujarat e poi nel resto del Paese per sfuggire alla conquista in patria dell’Islam.
I primi contatti sono ancora precedenti, già nel secondo millennio a.C come dimostrato dai legami linguistici: infatti le lingue indo-arie (del nord dell’India) e quelle iraniche sono considerate appartenenti ad un unico gruppo. A riguardo il famoso poeta indiano Amir Khosrow scrisse: “La lingua persiana parlata in India è la stessa dal Sind al Bengala. Questo Persiano è il nostro Dari. Le lingue indiane differiscono di gruppo in gruppo e cambiano (i loro vernacoli) ogni cento chilometri. Ma il Persiano è lo stesso su un’area di quattromila parsanghe”.
La comunione fra le due civiltà diviene ancora più evidente nel terzo secolo d.C a Bactria dove le monete rinvenute mettono insieme raffigurazioni di ambiente indù, con scritte in greco e in lingue iraniche, o su alcune piastrelle dove si notano devoti kushana (dinastia indiana del tempo) accostati a divinità talvolta greche, talaltre appartenenti allo zoroastrismo, all’induismo o al mazdeismo.
L’Islam invece assume un ruolo importante attraverso il sufismo.
Gli Arabi che arrivarono in Persia nel settimo secolo durante l’epoca sasanide convertendo gli zoroastriani alla religione musulmana fino al nono secolo e fu durante la medesima epoca che il Sacro Corano venne tradotto in Persiano.
In India gli Arabi giunsero verso il 711, ma non essendo il territorio particolarmente fertile non si stabilirono in modo permanente, come invece accade in Persia.
La famiglia araba degli Habbari inizia a governare nel Sind nell’841, creando uno Stato semi-indipendente fedele al califfato abbaside di Baghdad sino all’arrivo, nel 1024, dei Ghaznavidi, una popolazione iranica di lingua turca i quali nel dodicesimo secolo conquistano Ghazna e spostarono la capitale da Lahore a Delhi.
Durante l’epoca ghaznavide numerosi studiosi di lingua persiana (tra questi anche Al Biruni che se pur persiano continua a scrivere in arabo) si trasferirono in India. Il Sultanato di Delhi durò dal 1206 al 1526. Molti sultani provenivano dall’Asia Centrale, erano ossia turchi persianizzati come anche i successivi Mughal (1526-1739).
Se gli intellettuali indù, guidati da un filosofo di nome Shankara (788-850), dovettero difendersi dalle critiche di idolatria mosse loro dai musulmani, i Mughal invece non forzarono la popolazione di rito induista a convertirsi all’Islam pur andando contro il proprio interesse visto che i non musulmani erano costretti a pagare una tassa più alta (la jizya).
A riguardo una delle figure più importanti da ricordare è Muḥammad Abū l-Fatḥ Jalāl al-dīn, meglio conosciuto come Akbar il Grande (Umarkot, 15 ottobre 1542 – Agra, 27 ottobre 1605), il terzo sovrano timuride dell'Impero Moghul. Gran Mogol dal 1556 fino alla morte, fu tra i più importanti imperatori del suo Impero non solo grazie all'impegno militare (operò diverse conquiste espandendo i domini della dinastia) e alla politica di riforma amministrativa, ma soprattutto per gli sforzi in campo religioso nell’intento di far convivere in modo paritario e pacifico le diverse religioni site nell’Impero.
Estremamente tollerante nei confronti dell'induismo, fu invece molto più critico nei confronti della propria religione ossia l’Islam; a riguardo egli permise la riconversione degli induisti dall’Islam imposto precedentemente all’induismo.
Egli volle approfondire la conoscenza di altri culti ed invitò a dibattere pubblicamente e liberamente alcuni esponenti delle principali religioni presenti nel suo regno: musulmani, zoroastriani, hindu, giainisti e anche cristiani, questi ultimi provenienti da Goa, possedimento portoghese, nonché dalle missioni francescane e gesuite.
Un’altra figura da ricordare è quella del sufi Mohammed Dara Shikoh, figlio maggiore ed erede del quinto imperatore Mughal Shah Jahan.
Dara Shikoh viene universalmente riconosciuto come un esempio illuminato della coesistenza armoniosa delle tradizioni eterodosse nel subcontinente indiano: come non ricordare la sua opera Majma-ul-Bahrain ( "La confluenza dei due mari"), scritto come un breve trattato in Persiano nel 1654-1655, dove egli ricerca un linguaggio mistico comune tra Islam e Induismo? Egli completò anche la traduzione di cinquanta Upanishad dal loro originale sanscrito in persiano nel 1657 in modo che potessero essere studiati dagli studiosi musulmani.
Dara Shikoh sviluppò inoltre una amicizia con il settimo Sikh Guru, Guru Har Rai .
Tuttavia il primo trattato sul Sufismo in Persiano è scritto da Hojviri, Kashf al-mahjub, nel periodo ghaznavide; durante il sultanato invece si distinguono le opere Fawaʾed al-foʾad di Amir Hasan Sejzi Dehlavi e Nafaʾes al-anfas wa lataʾef al-alfaz di Rokn-al-Din di Kashan.
Secondo l’islamista Alessandro Bausani, i più grandi poeti persiani sono sufi e i più grandi sufi sono persiani, e la Persia dà la lingua al Sufismo, mentre le opere sufi in Arabo sarebbero “più contorte e frammentate”.
A formare una coscienza mistica non concorre soltanto l’islam in India, ma anche una forma particolare di induismo, il movimento Bhakti; quest’ultimo permetterebbe attraverso il sincretismo ai sufi di non essere visti come estranei al mondo vedico; a riguardo si dice che uno dei discepoli di Muin-ud-din Cishti (1141-1236), stabilitosi in un piccolo villaggio del Panjab per vivere da santo eremita, sia stato venerato dagli abitanti hindu, raccogliendo una vasta cerchia di discepoli che lo invocarono con l’appellativo reverenziale riservato ai Sindhu, Baba Farid. Lo stesso accade anche a Baba Nur ad-Din (1377-1438) addirittura soprannominato rishi, saggio veggente e tramite col divino per i comuni mortali. I suoi seguaci diedero vita alla Rishiyyah, confraternita ancora oggi molto diffusa in Kashmir (dove Baba Nur ad-Din è stato per secoli venerato come santo patrono), che fa visita (ziyarat) alle tombe dei santi, intona canti devozionali, attua il culto dei più sapienti, dei più anziani, dei maestri e questo fa pensare che si tratti di un’influenza dell’induismo, politeista.
L’Ordine che ha maggior importanza in Hindustan è la Cishtiyya, fondata dal maestro sufi citato sopra (Muin-ud-din Cishti), proveniente da Samarcanda e stabilitosi in India. Attivi in ambito politico sono gli ordini Suhrawardiya e Naqshbandiya. Diffuso particolarmente fra i ceti alti e le élite locali è l’ordine Sattariya. Fra gli ordini che invece rifiutano in toto la vita mondana e i cui discepoli vagano per il Paese secondo le abitudini degli omologhi hindu, i Sadhu, ci sono la Malamatiyya e la Qalandariyya. I Malamati, letteralmente “quelli del biasimo”, vivono in povertà assoluta e rifiutano le elemosine, mentre ai Qalandar sono attribuiti poteri soprannaturali (i cosiddetti “Fachiri”).
I sufi indiani citano spesso i versi di Sa’di, Rumi, Hafez in Persiano nelle confraternite.
Ernst (1950) scrisse un articolo dal titolo “Situating Sufism and Yoga” riguardo alla probabile influenza tra Sufismo e Induismo e alle connessioni tra la pratica dello yoga e il misticismo islamico Infatti, opere sullo yoga furono tradotte abbondantemente in Arabo, Persiano, Urdu, ecc. Per non contare che il primo testo con le posizioni dello yoga è in Persiano e compare nella corte mughal.
Nel “Libro della guarigione sufi” si può notare che lo yoga contempla pratiche di respirazione, ripetizione di determinate frasi coadiuvanti l’esperienza spirituale, o ancora visualizzazioni di immagini in corrispondenza di determinate parti del corpo tipiche anche del sufismo.
La studiosa Anastasia Maniglio scrive: “In conclusione, sono vari gli ambiti che ci forniscono del materiale per poter affermare la continuità esistente nel tempo tra due culture (indiana e persiana) che in realtà si dimostrano un unicum: architettura, letteratura, scultura, pittura, tradizioni religiose, numismatica… Ogni ambito meriterebbe un’analisi approfondita che già in realtà è stata trattata da vari studiosi, tra i quali Muzaffar Alam (1947) ed Ernst”.
La cultura indo-persiana, secondo la Maniglio, è di tutti coloro che, assumendo ruoli diversi nel tempo nella società, si sono trovati a vivere o passare da questo esteso territorio.