ASTEYA, NON APPROPRIAZIONE E DISTACCO NELLO YOGA SUTRA DI PATANJALI
Continuando il nostro percorso alla scoperta degli Yoga Sutra di Patanjali, cercando ancora di salire faticosamente il primo gradino, ossia quello degli Yama, dopo Aimsha e Sathya troviamo Asteya.
Ma portiamo la nostra attenzione alla “viva” voce del maestro:
“Quando asteya (non appropriarsi) è radicato nella persona, tutti i gioielli ed i tesori si presentano o sono disponibili per lo Yogi” (Yoga Sutra 2: 37).
Quando siamo radicati nel principio del non desiderare di appropriarci di cose che non ci appartengono (si va ben oltre il concetto del non rubare), solo allora tutti i più grandi tesori e fonti di felicità si presentano a noi. Come sappiamo i desideri (raga) sono cause di sofferenza. Quando le persone o le cose diventano oggetto del nostro desiderio di appropriarci sviluppiamo aspettative e senso di attaccamento lasciando invece in disparte ciò che conta realmente: accettare le persone e le cose per ciò che sono.
Quando osserviamo in modo disinteressato non sviluppiamo il desiderio, non sentiamo la sofferenza che crea in noi la volontà di possedere qualcosa che non abbiamo.
Ma leggiamo una storia della cultura indiana che può aiutarci a capire meglio questo concetto, ossia quella del Maestro e del re Bharat.
“C’era una volta re chiamato Bharat, uomo saggio e compassionevole. Amava i suoi sudditi come figli e lavorava molto duramente per la prosperità del suo regno. Giorno e notte non smetteva mai di lavorare e raramente si riposava. Questa mancanza di riposo iniziò a creare in lui uno stato di malessere. Il suo Maestro un giorno venne a visitarlo e questo uomo saggio capì cosa stava succedendo. Il Maestro ed il discepolo stavano facendo una passeggiata nel bellissimo giardino del palazzo. Il Maestro gentilmente suggerì al Re di riposarsi qualche ora e lo rassicurò che sarebbe stato sicuramente meglio. Il Re educatamente rispose ‘Come posso riposarmi, c’è così tanto da fare, devo farlo per la mia gente’. Il Maestro si limitò a sorridere e continuò a camminare. Arrivarono nei pressi di un bellissimo albero ed il Maestro corse verso l’albero, lo abbracciò e disse ad alta voce: “Lasciami andare, perché mi stringi così forte albero, lasciami andare”. Il re era sconcertato e chiese al Maestro cosa stesse succedendo senza ottenere risposta. La cosa andò avanti per alcuni minuti e finalmente il Re disse: “Maestro, non è l’albero a trattenere voi ma siete voi a trattenerlo. Lasciatelo e sarete libero”. Con calma il Maestro lasciò andare l’albero e disse “ Esatto!”. Allora Bharat capì il suo errore, da quel giorno delegò parte del suo lavoro per riposarsi di tanto in tanto ed iniziò a osservare e prendersi cura di se stesso” . Il Re agiva per amore eppure sviluppando senso di possesso nei confronti del popolo e del lavoro non sa più delegare responsabilità ed inizia ad agire contro sé stesso.
Come emerge anche dal racconto precedente il concetto di Asteya ricomprende quello centrale nell’ambito della filosofia Yoga del non attaccamento.
Il non attaccamento ci permette di non vantarci per una buona azione compiuta, di non aspettarci nulla dalle situazioni che si presentano nella nostra vita (è il famoso distacco dai frutti dell’azione come troviamo anche nel testo sacro della Baghavad Gita, che è un inno al karma yoga).
Quando le persone o le cose diventano oggetto del nostro desiderio sviluppiamo aspettative e senso di attaccamento, sottomettendole alla nostra ottica duale di giusto/sbagliato. Ci ergiamo a giudici, ponendo delle etichette ai singoli individui e finiamo per non accettare più l’essere umano di fronte a noi per ciò che è, ma in quanto “nostro”. Carichiamo così di aspettative la persona in base a ciò che per noi è giusto, smettendo di essere grati per l’incontro e per i possibili nuovi orizzonti che la situazione ci può indicare. Di conseguenza sorgono frustrazioni, aspettative e desiderio di cambiare ciò che non ci piace in chi abbiamo di fronte. E così spesso facciamo anche con noi stessi sviluppando aspettative e non accettandoci più non appena ci discostiamo dal nostro ideale.
Asteya può essere inteso quindi anche come sospensione del giudizio. Imparando ad amare, apprezzare, condividere senza alcuna aspettativa, senza istinto di possesso, riusciamo a godere in pieno della bellezza senza rimorsi, vivendola in maniera completa e armonica.
Ma leggiamo ora un altro racconto, questa volta tratto dal Ramayana, la saga dell’esilio e delle avventure di Rama.
La regina Kaikeyi, alla quale è stato concesso dal marito di esprimere due desideri, chiede che Rama, figlio di una precedente moglie del re e designato come successore dal padre, non venga nominato reggente e che al suo posto venga insignito del titolo suo figlio Bharata. Onde evitare possibili problemi Kaikeyi esprime come secondo desiderio che Rama venga mandato in esilio per 14 anni. Il re non può negare queste richieste alla moglie, che un tempo gli aveva salvato la vita, e col cuore spezzato accetta di man dare l’amato Rama in esilio, morendo poco dopo per la tristezza.Bharata, scoperta l’ingiusta richiesta della madre, rifiuta di occupare il trono e chiede a Rama di tornare ma questi, rispettando le ultime parole del padre, decide di continuare il suo esilio. Accetta però la richiesta di Bharata di lasciargli i suoi sandali, che vengono posti sul trono sul quale il giovano fratellastro non si siederà mai, per enfatizzare il legame e il rispetto che porta a Rama. Bharata attenderà 14 anni il ritorno di Rama dall’esilio forzato, governando da un eremo con umiltà, buon senso e senza farsi notare.
possibili problemi Kaikeyi esprime come secondo desiderio che Rama venga mandato in esilio per 14 anni. Il re non può negare queste richieste alla moglie, che un tempo gli aveva salvato la vita, e col cuore spezzato accetta di man dare l’amato Rama in esilio, morendo poco dopo per la tristezza.
Bharata, scoperta l’ingiusta richiesta della madre, rifiuta di occupare il trono e chiede a Rama di tornare ma questi, rispettando le ultime parole del padre, decide di continuare il suo esilio. Accetta però la richiesta di Bharata di lasciargli i suoi sandali, che vengono posti sul trono sul quale il giovano fratellastro non si siederà mai, per enfatizzare il legame e il rispetto che porta a Rama. Bharata attenderà 14 anni il ritorno di Rama dall’esilio forzato, governando da un eremo con umiltà, buon senso e senza farsi notare.