MIRCEA ELIADE. IL FENOMENOLOGO DELLE RELIGIONI
Mircea Eliade (Bucarest, 13 marzo 1907 – Chicago, 22 aprile 1986) è stato uno storico delle religioni, antropologo, scrittore, filosofo, orientalista, mitografo, saggista e accademico rumeno.
Uomo di grande cultura, assiduo viaggiatore, parlava e scriveva correntemente otto lingue: rumeno, francese, tedesco, italiano, inglese, ebraico, persiano e sanscrito; a 14 anni pubblicò il suo primo racconto “Come ho scoperto la pietra filosofale”.
Eliade fu fenomenologo delle religioni, antropologo, filosofo e saggista, studioso del mondo arcaico e orientale, esperto di yoga e di sciamanesimo.
Nel 1925 si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia all'Università di Bucarest. Furono, quelli, anni di incontri e di viaggi: Constantin Noica, Emil Cioran (che nel 1986 gli dedicherà uno dei suoi Exercises d'admiration) e Eugène Ionesco, con i quali mantenne una lunga amicizia. Affascinato dalla cultura italiana e dal pensiero di Giovanni Papini (fino al punto di imparare l'italiano per leggerne le opere), soggiornò in Italia nel 1927 e nel 1928.
Dopo la laurea in filosofia (1928) con una tesi intitolata “La filosofia italiana da Marsilio Ficino a Giordano Bruno” vinse una borsa di studio per studiare a Calcutta la filosofia indiana con Surendranath Dasgupta, in casa del quale incontrò Giuseppe Tucci. Il viaggio in India durò dal novembre 1928 al dicembre 1931, avendo come sede principale Calcutta (dove Eliade cominciò a studiare il sanscrito), ma comprendendo anche diversi viaggi nell'India del nord e un soggiorno di alcuni mesi in un ashram vicino a Rishikesh, ai piedi dell'Himalaya.
L'esperienza e gli studi di questo periodo e lo stretto contatto con le religioni dell'India influenzarono e orientarono profondamente il suo pensiero. Fu qui che preparò la sua tesi di dottorato, discussa a Bucarest nel 1933 col titolo “La psicologia della meditazione indiana”, pubblicata poi a Parigi nel 1936 con il titolo “Yoga, essai sur les origines de la mystique indienne” (che diventerà, dopo successive rielaborazioni, il classico saggio “Lo yoga, immortalità e libertà”).
Dal 1933 al 1940 insegnò filosofia all'università di Bucarest e svolse un'intensa attività editoriale, pubblicando vari romanzi e saggi. Fu in questo periodo che, anche per la sua vicinanza a Nae Ionescu, manifestò la sua simpatia per il Movimento Legionario, chiamato anche Guardia di ferro, formazione ultranazionalista in cui vedeva "una rivoluzione cristiana per una nuova Romania" e un gruppo "in grado di riconciliare la Romania con Dio". Negli anni 1936-38 scrisse pochi articoli filolegionari, alcuni in elogio dei leader legionari Ion Moța e Vasile Marin.
Nel marzo 1940 - sei mesi prima dell'instaurazione del regime nazional-legionario del generale Ion Antonescu, Eliade venne nominato consigliere culturale dell'ambasciata rumena, prima a Londra e poi, dal 1941 fino a settembre 1945, a Lisbona. Nel 1942 scrisse “Salazar și revoluția în Portugalia”, una celebrazione dello "Stato cristiano e totalitario" del dittatore Salazar.
Alla fine della seconda guerra mondiale si trasferì a Parigi, dove rimase fino al 1956. Qui insegnò, scrisse, ebbe contatti fittissimi con università e intellettuali di vari paesi: invitato da Jung, cominciò a partecipare alle conferenze di Eranos nel 1950, ma condusse sostanzialmente una difficile vita da esule affermando che la sua patria rimaneva la lingua romena, poiché per ogni esiliato, la patria è la lingua materna che continua a parlare.
Dal 1957 la sua attività ufficiale fu di professore di storia delle religioni all'Università di Chicago, ma continuò nel frattempo a viaggiare moltissimo, a pubblicare (quasi tutto in Francia) e a svolgere fittissime attività accademiche. Dal 1960 al 1972, insieme a Ernst Jünger, diresse la rivista di storia delle religioni “Antaios”, pubblicata dall'Editore Klett di Stoccarda.
Alcuni volumi dell'”Encyclopedia of Religion” furono editi da Mircea Eliade come caporedattore (pubblicati da Macmillan) e tale opera gli valse la Dartmouth Medal dell'American Library Association nel 1988.
Forse il merito più grande dello storico delle religioni romeno è stato di avere preso il sacro sul serio. Secondo lui il sacro è la categoria fondamentale delle civiltà: non è una sovrastruttura, come vorrebbe un certo materialismo dialettico, non nasconde un sostrato economico o sociale, ma al contrario, li fonda. Tutto il reale è leggibile come ierofania, manifestazione del sacro, della sua potenza: cratofania. Non c’è ambito che non lo sia, nelle civiltà arcaiche. E il sacro è anzitutto collegato al problema del tempo (autentico suo chiodo fisso, che compare anche in molta sua narrativa, da Un’altra giovinezza al recentemente pubblicato Dayan. Attraverso il rito, scrive in quel capolavoro che è il Trattato di storia delle religioni, l’uomo viene reintegrato nell’illud tempus, nel tempo senza tempo precedente la caduta nella storia. Un tempo che però non è confinato in un lontanissimo passato, ma che è contemporaneo a tutte le epoche e che spetta al rito riattualizzare. Solo così l’uomo può incontrare la propria essenza più profonda.
Il rito, il mito, il simbolo: ecco le chiavi che schiudono l’accesso ai tesori dell’antichità e delle culture “altre”.
Nel mondo moderno, il sacro non scompare affatto. Al massimo può mutare forma, nascondersi: nella creatività, ad esempio. Viene da sorridere, addirittura, sentendolo parlare di modernissime correnti che trarrebbero di energia da componenti mitiche pre-moderne, come la psicanalisi freudiana, anticipata dalla psicologia dello yoga.
Un occhio rivolto al passato, uno fisso sulla modernità, rea di aver distrutto l’immaginazione, decimato la fantasia, relegandola a una specie di costruzione al di là del mondo, buona solo per chi non sa stare con i piedi per terra. La sua opera ci ricorda che il tempo storico non esaurisce affatto ciò che siamo, ma che è sempre possibile nelle nostre vite l’irruzione dell’Altra Realtà. Per Eliade la storia va oltre la dimensione materiale e il tempo non è lineare. Egli definisce il nostro tempo come “il terrore della storia» ossia la condizione di chi rinuncia a leggere passato, presente e futuro con un occhio metastorico. Senza un riferimento superiore le crisi non sono più viste come delle prove, ma come dei drammi fini a sé stessi. Laddove cessa un’indagine simbolica sulla storia, essa diviene una collazione di tragedie. La sua esplorazione del passato alla ricerca delle radici europee, lo porta a scoprire che sono molto più profonde di quel che ci hanno raccontato, più antiche della cultura greca e di quella romana, radici che, come racconterà a Claude-Henri Rocquet, «ci rivelano l’unità fondamentale non soltanto dell’Europa, ma anche di tutto l’ecumene che si stende dal Portogallo alla Cina, dalla Scandinavia a Ceylon». Un metodo analogo a quello di René Guénon, che lesse e non mancò di criticare, ma soprattutto di Julius Evola, con il quale mantenne una fitta corrispondenza.
Il suo pensiero comunque rappresenta un’autentica oasi in quel deserto di strutturalismi, decostruzionismi e pensieri deboli, post, neo e via discorrendo, che imperversa oggi.