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Sibilla Mannarelli

L'ARCHIMANDRITA SOFRONIO E LA PIRAMIDE CAPOVOLTA


Nato nel 1896 a Mosca, in una grande famiglia ortodossa, padre Sofronio, al secolo Sergej Semionovich Sacharov, sperimentò la presenza di Dio, dopo essere passato attraverso un fraintendimento intellettualistico iniziale: abbandonato infatti il Dio vivente della sua infanzia, si rivolge al misticismo orientale non cristiano. Confondendo l’individuo con la persona, serve, come lui stesso dirà più tardi, il «Dio dei filosofi che in realtà non esiste». Dopo avere studiato Belle Arti a Mosca, nel 1922 a 26 anni si trasferisce a Parigi dove si dedica alla pittura, che «lo possiede come uno schiavo» (scriverà poi), ed espone nei luoghi più illustri dell’arte moderna, dal Salon d’Automne al Salon des Tuileries.

La fuga a Parigi è dovuta anche al clima instauratosi in Russia nel periodo. Fra il 1917 e il 1923 infatti scomparvero 128 vescovi e 25.000 sacerdoti mentre altre migliaia furono imprigionati in campi di lavoro. Venivano distrutte 40.000 chiese, chiusi i monasteri e confiscati i beni ecclesiastici.

Ma la pittura non lo soddisfa: «I mezzi di cui disponevo erano incapaci di restituire la bellezza che regna nella natura». La svolta avviene il giorno di Pasqua del 1924: colui che egli aveva abbandonato, gli si manifesta. «Io sono colui che sono » questa rivelazione fatta a Mosè da Dio è per padre Sofronio una vera e propria via di Damasco.

Egli scrive: «Grande è la parola io. Essa designa la persona e poiché Dio dice “Io”, l’uomo può dire “tu”. È una relazione. E la preghiera è questa relazione del figlio con il Padre ».

Desideroso di dedicare la sua vita a Dio, entra all’Istituto Saint-Serge, appena fondato a Parigi, ma anche gli studi non lo soddisfano: fino alla morte manterrà un atteggiamento critico verso la teologia accademica.

Per Sofronio «il cristianesimo non è una dottrina, ma la vita». La teologia non è un esercizio speculativo, ma «lo stato di essere ispirati dalla grazia divina» e la santità non è di natura etica, ma ontologica: «Non è santo colui che ha raggiunto un livello elevato nella morale umana o in una via di ascesi e anche di preghiera (anche i farisei digiunavano e recitavano lunghe preghiere), ma colui che porta in sé lo Spirito Santo».

Nel 1925, lasciata Parigi, raggiunge il monte Athos dove entra nel monastero di San Pantaleimon, diventando monaco con il nome di Sofronio. Presto riceve la grazia della preghiera incessante, «dono di Dio collegato a un altro dono: il pentimento». Trasfigurato dalla preghiera, diventa preghiera. Il monaco, per lui, è l’icona della Madre di Dio. È colui che prega per il mondo intero. Dopo cinque anni al monte Athos, viene ordinato diacono e conosce Padre Silvano. Sofronio, intellettuale colto e ferito dalla metafisica, si mette ai piedi di questo uomo semplice e quasi analfabeta che viveva al massimo grado l’amore per i nemici. «Tieni il tuo spirito all’inferno e non disperare»: padre Sofronio comprende che questo richiamo a una perenne autocondanna è il cammino più diretto per rendere il nostro cuore umile e libero di ricevere l’amore di Dio. Perché «una cosa è l’umiltà ascetica e tutt’altra cosa è l’umiltà di Cristo»: la prima consiste nel vedersi come il «peggiore di tutti», la seconda è «un attributo dell’amore di Dio che si offre senza misura», è l’azione dello Spirito Santo in noi, quando viviamo l’intera umanità come noi stessi. Dopo la morte del suo starec nel 1938, padre Sofronio va a vivere come eremita in una cella a Karoulia, nel cuore del monte Athos. Qui la preghiera allarga il suo cuore: sente l’eco della guerra nella profondità della sua caverna. Di notte, in particolare, il grido dell’umanità sofferente gli trafigge il cuore e prega per il mondo intero piangendo come per se stesso. La pietra angolare del Vangelo per padre Sofronio (come per Padre Silvano) è l’amore per i nemici: unico rimedio per tutti i mali. Ordinato ieromonaco nel 1941, un anno dopo è elevato alla dignità di padre spirituale. Da questo momento sarà il confessore in diversi monasteri: è l’inizio di una paternità spirituale che non cesserà fino alla sua morte. Verso la fine del 1943, si trasferisce nell’eremo della Santa Trinità, nei pressi di Nea Skiti: le condizioni di vita sono durissime e la sua salute ne risente. Due anni dopo, sarà costretto a rinunciare ad abitare quella cella. Vive per un po’ nell’eremo di Sant’Andrea, ma nel 1947, ormai molto malato, è costretto a tornare in Francia: vivrà in quella piccola Russia dell’immigrazione che era Saint-Geneviève- des-Bois, vicino a Parigi. Nel 1959, dopo aver cercato invano in Francia un luogo adatto per iniziare un’esperienza di vita comunitaria, padre Sofronio parte per l’Inghilterra con alcuni discepoli. Il gruppo si stabilisce nell’Essex, in una vecchia casa parrocchiale dove viene fondato il monastero di San Giovanni Battista. Sofronio dà grande valore all’attività intellettuale e vede l’unicità della persona prevalere sulla regola la quale non crea l’unità della comunità, come invece fanno la volontà e la piena coscienza di vivere nello Spirito di Cristo. L’unica vera regola è Cristo. Per questo il monastero di San Giovanni Battista, il cui fondamento spirituale è l’insegnamento di san Silvano, non avrà regole, ma soltanto un orario: l’organizzazione della giornata nei tre tempi del pasto, del lavoro e della preghiera. Padre Sofronio apre anche un laboratorio di iconografia e, insieme ai suoi monaci e soprattutto alle sue monache, orna di affreschi il refettorio e la nuova chiesa, dedicata oggi a San Silvano. Scrive inoltre articoli e libri (come Vita di San Silvano, Vedremo Dio com’è. Autobiografia spirituale, Ascesi e contemplazione e La preghiera: un’opera infinita).

Muore l’11 luglio 1993, quando sta per compiere novantasette anni.

Una delle sue teorie (riportate nel suo “Silvano del Monte Athos”) sostiene che sia la dimensione psicofisica che quella spirituale del mondo si caratterizzano per una struttura piramidale, sottolineando la presenza della disuguaglianza.

Anche Gesù Cristo non nega la disuguaglianza, la gerarchia, la divisione in piani superiori ed inferiori, maggiori e minori, ma capovolge questa piramide dell’essere, collocando la cima in basso; in tal modo si giunge all’ultima perfezione.

La cima incontestabile di questa piramide è il Figlio dell’uomo che “non è venuto per essere servito ma per servire e dare la sua vita per la redenzione di molti”.

Anche gli angeli, esseri superiori agli uomini, sia per la loro conoscenza che per il loro modo di vita, vengono visti come «spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono ereditare la salvezza» e quindi sono anch’essi alla base della piramide.

Il Signore comanda ai suoi discepoli di seguire l’esempio dato da lui con la lavanda dei piedi. Egli dice loro: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non sia così: ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (Mc 10,42-44).

Con queste parole definisce lo scopo e la ragione dell’esistenza della gerarchia ecclesiastica, cioè far raggiungere, a chi si trova al grado inferiore della perfezione spirituale, il livello cui si trova colui che è gerarchicamente più in alto, poiché: «E’ lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,11-4).

Cristo come anticipato è la cima della piramide capovolta, la punta su cui si appoggia tutto il peso dell’intera piramide dell’essere.

Coloro che seguono il Cristo diventano, in modo inspiegabile, simili a lui e prendono su di sé il fardello o le infermità degli altri. Il cristiano si rivolge verso il basso, nella profondità della piramide capovolta, dove si sopporta una terribile «pressura» e dove si trova Colui che ha preso su di sé il peccato del mondo: il Cristo.

Quando il cuore umano viene toccato da una grande grazia divina, prende su di sé, proporzionatamente alle sue forze, il fardello dei propri fratelli. L’intensità delle sofferenze vissute colma il cuore d’una grande compassione per tutti coloro che soffrono.

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