ANSIA. LA STORIA DI UNA FEDELE COMPAGNA
Psicologi, storici, filosofi, ma anche teorici di storia della medicina nel cercare di risalire all’esperienza originaria dell’ansia e dell’angoscia, hanno situato quest’ultima ai tempi di Adamo ed Eva dove l’ansia dinnanzi alla scelta concessa loro dal libero arbitrio si esprimeva come paura di sopraffazione dalla natura, paure degli dei e fobia per la fine del mondo. Il greco Ippocrate che ebbe il merito di far avanzare lo studio sistematico della medicina clinica, riassumendo le conoscenze mediche delle scuole precedenti, rivoluzionando il concetto di medicina, tradizionalmente associata con la teurgia e la filosofia, e stabilendola come professione, interpretava l’ansia come segno di una malattia organica, mentre nel mondo romano la si vedeva già come un qualcosa di psichico e fisico insieme.
Gli antichi greci la definivano “melanconia” la cui causa risiedeva, secondo la teoria pitagorica dei quattro umori, nella bile nera. I rimedi per la melanconia erano vivere alla luce, non mangiare pesante, bagni, moto, ginnastica e, in seguito, anche musicoterapica. Non a caso, infatti, Apollo era dio della musica e della medicina, in virtù del “magico” legame tra le due arti.
Una svolta decisiva allo studio di questa sindrome, fu dovuta al pensiero del medico greco Rufo di Efeso, che si rifaceva agli studi di Ippocrate, e che scrisse fra l’altro di dietetica, patologia, anatomia e cura dei pazienti; purtroppo solo alcune sue opere sono sopravvissute grazie alle traduzioni in arabo.
Egli vedeva nell’eccesso di immaginazione e di attività intellettuale le possibili cause per una degenerazione patologica: la bile nera, quindi, non era più concepita come causa, ma come conseguenza.
Aristotele che fu il primo psicologo della storia che indagò sul rapporto tra vino e condizione dell’uomo e dedusse che ansia, malattie melanconiche, angoscia e depressione erano manifestazione della bile nera. L’effetto del vino era meno duraturo di quello della bile nera potendo al contrario portare anche allegria diventando così un rimedio all’ansia. I romani invece optarono per l’utilizzo dell’oppio e della mandragola, piante molto in voga nella medicina e lo stesso Aulo Aurelio Celso, enciclopedista e medico romano, consigliava di usare come sonnifero semi di mandragola messi sotto il cuscino.
Tuttavia la vera età dell’ansia è stata senza dubbio alcuno il Medioevo dove essa era legata all’effettivo rischio di malattia, soprattutto tubercolosi, lebbra, e peste a cui si aggiungevano guerre civili, lotte intestine fra fedeli e invasioni barbariche. Tale patologia aumentò poi intorno all’anno Mille quando sopraggiunse la paura della fine del mondo, il terrore per tutto ciò che è peccato e le superstizioni. L’ansia interpretata come malattia mentale e dello spirito, parve trovare cura nella religione poiché solo con essa un’anima pura non avrebbe temuto nulla. Tuttavia i vecchi rimedi continuarono comunque ad essere utilizzati, integrati con le conoscenze arabe che per esempio facevano ricorso ad apposite pietre preziose con benefici influssi.
Ibn Sinā, alias Abū ʿAlī al-Ḥusayn ibn ʿAbd Allāh ibn Sīnā o Pur-Sina più noto in occidente come Avicenna medico, filosofo, matematico e fisico persiano, ma soprattutto autorità indiscussa in medicina associava lo stato d’ansia ad altre malattie, proponendo cure a base di salasso e, un metodo molto in voga a quei tempi, sedute di “altalena”, per rallegrare il malato.
Paracelso, medico, alchimista e astrologo svizzero, associava stelle e malattie mentali. Gli astri corrisponderebbero alle passioni umane e Saturno era il pianeta che influenza l’umore malinconico. Per curare l’isteria usava la calamita e diffuse l’uso del laudano e dell’etere come calmanti e sedativi.
Si diffuse sempre di più l’utilizzo della Triaca, un antico rimedio polifarmaco inizialmente utilizzato per combattere i veleni degli animali. Gli ingredienti che ne facevano parte divennero molto numerosi, e il suo uso si mantenne fino al ‘600/’700. In questo periodo si diffusero altri farmaci come l’Orvietano, la cui formula resta ancor oggi un mistero e che era un toccasana per gli umori malinconici se unito ad acqua di melissa o di buglossa.
Interessante il rimedio consigliato dal filosofo, alchimista e scienziato italiano Gian Battista Della Porta che consigliava, per i disturbi mentali, la noce in quanto il mallo è simile ai tegumenti del cranio, l’endocarpo alle meningi e il gheriglio ai due emisferi celebrali (secondo un approccio già fatto proprio da Paracelso ossia la cosiddetta Signatura Rerorum). Si iniziarono inoltre a diffondere docce fredde per “rinfrescare le idee” associate a bagni caldi perché si credeva avessero l’effetto di inumidire ed ammorbidire le fibre nervose disseccate.
Solo con l’Illuminismo si sviluppò la ricerca medico-biologica, continuando, comunque, ad imperversare decotti, salassi, oppio e pietre preziose.
Fu nel ‘700, grazie al filosofo francese Denis Diderot che venne introdotta per la prima volta distinzione tra ansia e malinconia. Il concetto di ansia verrà così associato a quello di angoscia, che rimarrà tradotto con la stessa parola in lingue come il tedesco (Angt) e l’inglese (Anxiety).
Nell’800 disturbi nervosi come ansia ed isteria erano affidati alle cure termali in cui si facevano bagni caldi, vapori e, soprattutto ci si riposava dal lavoro. Nasceva così la “cura del riposo” che prevedeva isolamento, riposo a letto, dieta a base di latte, elettroterapia e massaggi.
L’ansia venne studiata su tre filoni: psicologico, biologico ed economico-sociale.
Il filosofo Soren Kierkegaard teorizzò il concetto di ansia-angoscia originaria che verrà ripreso da Freud il quale inizierà a parlare di vere e proprie manie. Dalla metà alla fine del XIX secolo iniziò a delinearsi una patologizzazione delle emozioni, fino a giungere, nel 1892, alla prima teoria generale della patologia emotiva del francese Féré. Lo psichiatra francese Valentin Magnan descrisse, alla fine dell’800, la meccanica dell’angoscia nelle ossessioni e impulsioni, cui seguirono, nel 1897, le teorie del clinico e neurologo J.A.Pitres e il collega Régis che individuarono nell’angoscia il sintomo specifico delle ossessione distinguendo tra nevrosi paurose, fobie, e ossessioni vere e proprie.
Tra il 1881 e il 1884 il medico americano George Miller Beard sviluppò una teoria ripresa per molto tempo: nominava neurastenia un’affezione generalizzabile per tutte le malattie nervose. Secondo le sue descrizioni essa poteva determinare dispepsia, cefalea, paralisi, insonnia, anestesia, nevralgie, gotta, spermatorrea negli uomini e irregolarità mestruali nelle donne e le cause erano riconducibili ad una perdita dei costituenti solidi del sistema nervoso centrale. Una simile teoria, molto vaga e facilmente collegabile ai diversi sintomi delle malattie nervose funzionali, trovò seguito per molti anni. La psichiatria utilizzava allora un vocabolario molto limitato e termini come nevrosi, isteria, depressione, ipocondria erano spesso interscambiabili.
Fino ad allora solo Freud aveva isolato una nevrosi specifica: la nevrosi d’angoscia distinguendo tra due forme di angoscia: la prima era un senso d’ansia e paura che nasceva da una desiderio rimosso, curabile con un intervento psicoterapeutico, la seconda era un senso di panico accompagnato da manifestazioni di scariche neurovegetative, non dipendente da fattori psicologici, indicata come nevrosi attuale. Con la Prima Guerra Mondiale e lo studio delle nevrosi traumatiche di guerra da parte di Heckel, Freud sviluppò il fulcro della sua seconda teoria dell’angoscia: un campanello dall’allarme in vista di un pericolo immanente.
Seguirono molte altre ricerche e vennero redatti manuali per la cura delle malattie rivolti ai medici ed ai pazienti nella cura e gestione di un malessere sempre in continuo aumento in questa nuova epoca di età globale.
Con la globalizzazione siamo in presenza di un radicale cambiamento nell'impostazione dei rapporti tra i soggetti laddove la rapidità con cui le azioni umane e i loro comportamenti vengono in tempo reale estesi in tutte le parti del globo. Questo comporta un azzeramento del tempo logico (mentale) e cronologico (temporale) oltrechè spaziale. Il principio che regola la globalizzazione si basa sulla comunicazione; quest’ultima viene percepita come al di fuori del tempo e dello spazio: queste due dimensioni risultano estrapolate dal concetto mentale con cui ogni essere umano fino ad ora le ha considerate. In realtà ci troviamo di fronte ad uno spazio azzerato ed ad un tempo altrettanto azzerato. La velocità comunicativa di cui si avvale la globalizzazione ha eliminato ogni differenziazione tra i soggetti, ogni soggetto diventa talmente prossimo e limitrofo da essere vissuto, percepito come invasivo, pervasivo del proprio spazio vitale.
Il soggetto, così come lo intende la psicoanalisi, viene ridotto a razza umana massificata, strumento da indottrinare, plagiare, invogliare come un Turbo consumatore (Lipovetsky) verso quel godimento che il consumo prospetta come unica panacea soporifera per il raggiungimento della sopracitata felicità.
E’ evidente che tutto ciò ha comportato, numeri alla mano, un aumento dello stress associato a stati di ansiosi e di panico che vengono aumentati col timore di un continuo pericolo imminente quale conseguenza delle continue guerre in corso.