LA FIGURA DI MOSE' SECONDO SIGMUND FREUD
Il punto di partenza di Freud, fondato sull’etimologia, consiste nel considerare il Mosè del racconto biblico un egizio e più precisamente colui che avrebbe insegnato agli ebrei il monoteismo del faraone Akhenaton.
Eleonora Luberti nel suo articolo “La figura di Mosè secondo Freud” sostiene che le tesi di quest’ultimo sarebbero, a riguardo, vere solo in parte. Il culto di Aton, di fatto, non inizia con il faraone Akhenaton, ma è un culto esoterico sorto al tempo della costruzione delle piramidi, nell’Antico Regno. Infatti in quel tempo si formò accanto alla religione del popolo una particolare forma di culto solare, che vedeva nel dio Atum, il Sole, il simbolo stesso del Sole divino che alberga nel cuore di ogni creatura vivente.
Il viaggio del dio Atum negli inferi rappresenta il cammino iniziatico del neofita verso la liberazione del proprio pneuma divino dall’attaccamento psichico alla realtà del molteplice. La raffigurazione del dio Aton, il Sole, è solo una metafora per esprimere il carattere divino dell’essere umano, per il quale è stato fatto non solo il più importante tra gli esseri fisici, il Sole, ma anche tutta la natura, come affermato sia nell’Inno ad Aton del faraone Akhenaton, che nei frammenti autenticamente scritti da Tutmoses (Mosè) del Genesi.
La Genesi è un libro con notevoli influenze jahviste, elhoiste tra cui sicuramente quella atoniste, facilmente riscontrabile analizzando la frase: “Polvere sei e in polvere tornerai”, una concezione del genere conduce direttamente alla negazione dell’esistenza dell’oltretomba.
L’influsso del pensiero di Akhenaton che negava l’esistenza dell’oltretomba è palese.
Non è inoltre vero che l’esodo dei seguaci di Aton sotto Mosè fu svolto in maniera pacifica: è probabile che il testo biblico rifletta un clima di guerra civile tra un capo fedele alla riforma religiosa di Akhenaton e i suoi seguaci e quanti cercavano di restaurare gli antichi culti pagani.
Mosè per molte persone appartenenti al mondo ebraico, oltre ad incarnare la figura del profeta, diventa esso stesso simbolo della liberazione, essendo guida, condottiero, unificatore, legislatore e garante delle torah stessa.
Stando alle tesi di Ernst Sellin, Freud ipotizza che Mosé, rappresentato come una figura autoritaria, sia stato assassinato in una rivolta e, quindi, sostituito da un altro profeta, prima di essere «ebraicizzato» attraverso il mito dell’esposizione. Il «nuovo» Mosè avrebbe introdotto poi un’immagine «più morbida» di Yahwè senza però riuscire a eliminare del tutto l’«ombra del dio di cui il suo aveva voluto prendere il posto». Così a Cades, afferma Freud, la minoranza di origine egiziana (che praticava la circoncisione) che si rifaceva al culto di Aton e le tribù semitiche che si rifacevano al culto di Jhavè avrebbero dato vita ad una nuova religione, che fondeva i due culti, e ad un nuovo popolo. Lo psichiatra e psicoanalista Karl Abraham (Brema, 3 maggio 1877 – Berlino, 25 dicembre 1925) accusa Jung di trasformare l'osservazione scientifica in filosofia e questa, a sua volta, in teologia. Jung, cercando una maniera per sottrarsi all'autorità di Freud, che forse era sentita come opprimente dalla maggior parte dei suoi allievi, cerca di prescindere dall'evidenza empirica per rivolgersi a quello che era sempre stato il punto forte della cultura occidentale: la filosofia prima amata e poi abbandonata dallo stesso Freud perché considerata incompatibile con l'osservazione scientifica.
La religione ebraica verrà caratterizzata dall’eterno ritorno del trauma dell’omicidio originario: un gesto dimenticato, ma ineliminabile nel senso di colpa dei successori. L’avvento del cristianesimo – spiega Freud – coinciderà con il tentativo di Paolo di rielaborare quel rimosso all’interno di una nuova religione espiando il peccato originale attraverso la morte del Cristo sulla croce. Secondo lo storico delle religioni Pier Cesare Bori, «il ragionamento freudiano valica qui i confini della conoscenza inoltrandoci decisamente nel «romanzesco», lo sforzo di chiudere il cerchio rimane assolutamente mirabile.
Dietro al senso di colpa, infatti, non vi è per Freud solamente l’uccisione del profeta, ma quel trauma per l’assassinio primitivo del padre ripetuto con Mosè e Gesù e da Freud descritto in Totem e tabù (1913). Si trova in questo passaggio storico-antropologico la radice inconscia dell’antisemitismo, di cui l’autore stava vivendo un’ennesima e drammatica riproposizione storica (ricordiamo che nel 1939 quando Sigmund Freud pubblica il suo Mosè non era un momento qualsiasi per affrontare la questione delle origini dell’ebraismo).
La forza del “romanzo storico” freudiano secondo Bori consiste nel veicolare un’immagine del tutto contraria a quella antisemita avanzata dai Protocolli di Sion. Il radicamento in Egitto della storia di Israele permette così a Freud di fare dell’ebraismo il vettore di una saggezza ecumenica e di un messaggio di liberazione universale che alcuni hanno visto all’origine della sua psicoanalisi. Lo scrupolo espresso nelle pagine iniziali dell’opera sull’opportunità di sottrarre al popolo ebraico il proprio figlio più grande è stato superato dal bisogno di esprimere una parola alta, e per certi aspetti anche teologica, contro la barbarie del presente. Freud secondo lo storico americano Yosef Yerushalmi avrebbe compiuto «un atto di obbedienza differita» esaltando attraverso la figura di Mosè lo slancio verso la purezza e la verità insito nell’ebraismo e ripreso dalla psicoanalisi, la moderna scienza dell’anima.
A Bori dobbiamo una delle prime disamine del testo, la prima a mettere in luce, seppure criticamente, l’intuizione freudiana sul «nucleo di verità storica» nella narrazione dei fenomeni religiosi, sul racconto nascosto nel racconto e sul rimosso come strumento per analizzare le contraddizioni nelle tradizioni e la loro riemersione.
«Possiamo allora affermare, conclude Bori, che il «titolo d’onore» della psicoanalisi freudiana deve essere collocato in una prospettiva più vasta, come realtà che, particolare (ed ebraica) quanto alla genesi, è universale nell’essenza».
Eleonora Luberti affronta lo studio di Freud da una prospettiva diversa, sostenendo che Freud sentirebbe la nostalgia della propria tradizione, tuttavia la sua figura di scienziato positivista non permetterebbe lui di esprimerlo in modo esplicito ma usando lo stesso inconscio “freudiano” attraverso il quale la proiezione del proprio malessere viene attribuita al popolo ebraico. Gli ebrei, infatti, non temevano che qualcuno portasse loro via il loro Eroe; quanto piuttosto era lo stesso Freud ad averlo perso e che cercava di riprenderne possesso. Freud secondo tale tesi avrebbe risentito del distacco dalla coesione con la propria tradizione a tal punto da generare in lui uno stato di malessere; egli tuttavia non poteva far altro che ricollegarsi ad esse se non attraverso un presupposto interesse scientifico, quale giustificazione manifesta di tutto il suo operare; così facendo attraverso la propria ricerca scientifica Freud cercava di riprendere il contatto e di ricollegarsi, non solo a Mosè, ma a tutto il suo ebraismo.