HENRY DE MONFREID. IL CORSARO NERO CONQUISTATO DA ALLAH
«Ho sempre fuggito l’avventura. L’ho incontrata sulla mia strada». Così ebbe a dire di se stesso Henry de Monfreid (Leucate 1879 – Ingrandes 1974), un francese la cui vita è così incredibile da sembrare partorita dalla fervida mente di un romanziere.
Contrariamente a quanto possa indurre il suo cognome, Henry de Monfreid non era di nobili origini. Non era nobile, né borghese. Il padre George-Daniel era manesco, assente, marito infedele e per di più vigliacco. Il figlio lo descrisse come un uomo debole, un “marinaio da operetta”.
A volerlo descrivere in poche parole, Henry de Monfreid era l’esatto contrario di un borghese: non amava la vita comoda e non era affetto dalla viltà, sentimento che da sempre contraddistingue questa grigia classe sociale divenuta protagonista passiva della Storia. Fu scrittore-avventuriero in patria e avventuriero-scrittore in Etiopia. Recitò se stesso nel film “Les secrets de la mer Rouge”, tratto dal suo omonimo libro e durante le riprese non si trattenne dal prenderne a schiaffi il direttore di produzione.
Perché “Henry è uno che ha la lotta nel sangue, ha bisogno di un nemico, vero o presunto non importa, per sentirsi vivo, per non morire di noia”.
Trasferitosi negli anni Venti fra la colonia francese di Gibuti, lo Yemen e l’Etiopia, fece di quell’area del Mar Rosso il centro nevralgico dei suoi traffici, più o meno illeciti: dapprima l’allevamento di perle, poi il commercio ben più redditizio di armi e di droga. Hashish, ma anche oppio, di cui egli stesso fu consumatore.
Anarchico individualista, fuori da ogni regola e convenzione sociale, ma con un suo codice d’onore. Fu anche radiato dalla massoneria.
Lupo di mare incallito, fu uno dei pochi espatriati europei dell’epoca a disdegnare i piccoli lussi della comunità occidentale per fraternizzare con i locali, imparando la lingua. In seguito alla sua conversione adottò il nome di Abd el-Hay, “Schiavo del vivente”, ma fu soprannominato dai nemici lo “Shaytan”, il Diavolo.
Amico degli italiani che occuparono l’Etiopia e nemico giurato dei britannici e di Hailé Selassié, che lo cacciò confiscando i suoi beni. La sua vita spericolata lo vide protagonista di operazioni di spionaggio contro il suo paese in favore dell’Italia fascista. Venne poi deportato in Kenya, nei campi di prigionia inglesi: POW, prigioniero di guerra, numero 79137.
De Monfreid “non ha avuto scrupoli, si è alleato con gli italiani, ha sfidato gli interessi inglesi, se n’è infischiato delle titubanze francesi…”. Neanche le medaglie mancano nella vita del buon vecchio Henry. Fu decorato dal Generale Graziani con la Croce di guerra per aver sostenuto “con la penna e con la parola l’azione vittoriosa dell’esercito italiano”. E, da scrittore, poco gli mancò per essere eletto all’Académie française.
Henry, come il padre, con le donne non fu propriamente il ritratto della fedeltà. Collezionò donne africane, tutte giovanissime, insieme a numerosi figli illegittimi. Tra tutti i “profumi di donna” annusati nella sua vita, quello di Armgart fu il più forte. E fu lei a diventare , europea, la madre dei suoi tre figli.
Sognatrice, artista, ma anche donna pratica, fece del marito il seguente ritratto: “Nutre disprezzo per la società e per ogni manifestazione di civiltà. Il deserto, il mare, la solitudine, è questo il suo regno”. Quella di Henry fu una vita vissuta tra mille luoghi, mille nomi, mille volti ma un solo mare: il Mar Rosso.
Ma neanche Armgart sarà la sua ultima moglie. Morta nel ’38, venne sostituita sette anni più tardi con una di venticinque anni più giovane di lui: Madleine. Lei non lo abbandonò mai, standogli vicino nei momenti più bui. Tocchò a lei essere l’ultima donna della sua vita.