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Massimo Mannarelli

L'ISLAM ESOTERICO IN INDIA


Il tasawwuf ebbe un ruolo di primo piano nell'islamizzazione dell'India e, contemporaneamente, venne da questa influenzato. Le prime incursione islamiche nell’India cominciano nel primo secolo dopo la morte del profeta Maometto (La Mecca, 570 circa – Medina, 8 giugno 632) e per molti secoli il persiano fu la principale lingua colta dell’India, prima sotto i sultanati, tra cui quello di Delhi, e poi soprattutto sotto gli imperatori Mogul.

L'Islam era già presente in Hindustan sin dall'inizio del VIII sec., ma si diffuse in particolare nel XII - XIII secolo, proprio con la predicazione di alcuni maestri sufi, che non solo si erano facilmente inseriti nella corrente religiosa popolare della Bhakti, ma che godevano anche di una particolare predilezione da parte dei regnanti musulmani. Questi infatti si trovarono a dover dare coesione a un vasto territorio, la cui cultura originaria si presentava però profondamente variegata. Tentarono quindi di attenuare le rivalità esistenti fra le molte fazioni, consolidare l'unione tra i Musulmani e, contemporaneamente, integrare gli Hindu al potere appoggiandosi proprio alle confraternite sufi, giacchè è caratteristica del Sufismo da un lato tentare la riconciliazione dell'Islam ufficiale con pratiche e credenze di altra origine, come accadde poi nelle vicende indiane di epoca mogul, e dall'altro il rispetto per la concezione gerarchica del potere.

Le confraternite sufi andarono così moltiplicandosi nel subcontinente indiano e con esse anche le loro sedi, khanqa, centri che, oltre alle sale per le riunioni e per l'audizione mistica, includevano anche cucine e refettorio comune, celle per il ritiro dei residenti o l'alloggio degli ospiti, nonché, a volte, anche la tomba del maestro stesso che le aveva fondate o ispirate. Costruite spesso ai margini delle città, le khanqa fungevano così anche da centri di accoglienza per i pellegrini di ogni credo.

Se i Sufi di origine araba avevano sottolineato principalmente il lato ascetico e le discipline corporee, quelli persiani, centroasiatici e dell'Hindustan svilupparono, invece, una fede che credeva fermamente nell'importanza di una ricca vita emotiva. Si dedicarono quindi alla poesia, cantarono e danzarono, mantenendo la loro fede in Dio e il loro amore per il Profeta, ma aggiungendovi anche la certezza secondo la quale credere e seguire il proprio maestro - Murshid o Guru - potesse ugualmente condurre verso la realizzazione della Divina Realtà. Il loro credo si fondò infatti sulla convinzione che l'anima umana fosse stata separata in vita dalla Divina Realtà e che la missione suprema degli esseri umani fosse proprio quella di riunirsi a questa. Seguendo il principio secondo il quale Dio esiste in tutte le cose e tutte le cose esistono in Dio, la religione divenne dunque solo uno dei tanti metodi utili allo scopo, ma non necessariamente l'unico valido: sarà proprio il Murshid colui che viene chiamato ad aiutare il suo discepolo a scegliere il percorso migliore e più adatto alla natura dell’allievo. L'approccio al divino dei maestri sufi era, infatti, basato sull'esperienza diretta di Dio da parte del singolo, in un rapporto estatico che veniva descritto come un totale rapporto d'amore del fedele nei confronti dell'Assoluto. La realizzazione di questo rapporto poteva essere ricercata anche attraverso l'utilizzo di tecniche particolari, fra cui il controllo del respiro e l'invocazione dei nomi di Dio o l'utilizzo di frasi o sillabe - mantra - che venivano affidate dai Murshid ai discepoli. Ed è proprio dai Murshid che derivarono gli Ordini sufi.

Per quanto concerne poi il rapporto fra Islam e Yoga, lo studioso Stefano Pellò (Vicedirettore del Master in Yoga Studies nonché professore di lingua e lettura persiana della Università Ca’ Foscari di Venezia che ha insegnato Indo-Persian literary culture presso la School of Oriental and African Studies di Londra e alla Columbia University di New York) sostiene addirittura che fu proprio la cultura islamica con il suo cosmopolitismo a permettere la diffusione dello yoga, anche in Occidente.

Pellò afferma di essersi reso conto che la trasmissione della cultura yogica in epoca moderna è soprattutto di derivazione indo/persiana. Sulla versione islamica dello yoga si sono basati i primi studiosi europei perché fino all’Ottocento l’arabo e il persiano erano in Europa molto più conosciuti del sanscrito. Tutto l’Ottocento si è avvicinato ai testi sacri hidu, attraverso la mediazione persiana. Il filosofo Shopenhauer le legge nella traduzione latina fatta da un orientalista francese, Anquetil du Perron, sulla base della traduzione persiana dell’islamico Dara Shikoh. Tutto questo implica che la traduzione persiana risemantizza completamente il testo vedantico, interpretandolo in chiave sufi. Più facile da comprendere per un occidentale in quanto la terminologia sufi è monoteista e si basa sul modello concettuale della filosofia aristotelica e neoplatonica. La prima rappresentazione sistematica degli asana, secondo gli studi di Pellò, si trova in un testo anonimo persiano del sedicesimo secolo, il Bahr’AlHayat, l’oceano della vita. Non è un testo filosofico di ambito scolastico che interessa una ristretta cerchia di studiosi, ma un vero manuale che elenca, raffigura e spiega gli asana. Il testo ha avuto una vasta diffusione in tutto il mondo islamico tanto che se ne sono trovate copie in decine di manoscritti tra Damasco, Istanbul e i Balcani. Questo significa che, per esempio, nella Costantinopoli ottomana del Settecento i sufi studiavano gli asana.

Essi utilizzavano varie tecniche di origine yogica, tra cui in primis il pranayama (letteralmente “espansione” o “controllo” del prana, la forza vitale). Più di ogni altro aspetto dello yoga il controllo del respiro entra profondamente presente nel sufismo. Per il sufismo lo yoga non è solo un elemento culturale o concettuale, è una pratica. Ad esempio c’è un enciclopedia del sapere islamico medievale del XIV secolo, il Nafa’is al-funun che presenta un capitolo sulla “scienza del respiro” definita come “la disciplina degli indiani che viene applicata dai sufi”. Ancora oggi, prosegue Pellò, ci sono delle confraternite sufi nel Pakistan che dichiaratamente usano sia asana che tecniche respiratorie a cui attribuiscono un significato adatto alla visione sufi, ma che nella ratica presentano una certa continuità con il mondo yogico. Il problema resta sempre quello di definire quale sia l’ “originale yoga” a cui ci si rapporta. Noi sappiamo che il testo di Patañjali perde importanza con la fine dell’età classica per riemergere solo nell’Ottocento. Sappiamo però che di tecniche yogiche il medioevo indiano fa uso, soprattutto in ambito islamico, mentre in ambito induista si assiste a una marginalizzazione dei praticanti yoga o sadhu, considerati dei “vagabondi”. La lunga storia dello yoga si tramanda quindi nei circoli sufi dove si praticano soprattutto pranayama molto codificati, tesi a favorire diversi gradi di ascesa mistica. Studiati dunque non certo per motivi salutistici quanto per favorire un percorso di destrutturazione del sé (in linea tra l’altro con gli insegnamenti di Patanjali). Nello yoga “vedantico” e nel sufismo islamico c’è la stessa visione di fondo: l’individuo è solo una onda nel grande oceano.

In India, con l’arrivo dei britannici, arrivò il bisogno tutto coloniale di catalogare e separare. Avvenne, quindi, una sorta di epurazione per cui ciò che era legato allo yoga doveva per forza essere indù mentre fino al Settecento le pratiche yoga venivano comunemente usate sia da islamici che da induisti e si riflettevano sul grande sentire monista del sufismo. Quella che ci è pervenuta dunque è una lettura occidentale della complessità culturale indiana, ma è una visione fuorviante. Si pensi al principe ereditario Mogul Dara Shikoh, figlio dell’imperatore Shah Jahan, il costruttore del Taj Mahal. Era un condottiero, un poeta e un erudito, un illuminato che con l’aiuto dei suoi saggi scrisse un libro sui due oceani mistici, quello del sufismo e quello del vedanta, il Majma ul-Bahrain (l’unione dei due oceani), una opera grandissima. Dara Shikoh tradusse cinquanta Upanishad, la Bhagavad Gita e lo Yoga-Vasishta dal sanscrito al persiano in modo che potessero essere letti dai musulmani.

Spesso le analogie fra le concezioni, i riti e il modo di vita dei Sufi rispetto a quelle dei mistici bhakta furono così forti che i Murshid furono in grado di portare avanti il loro apostolato in Hindustan senza venire mai percepiti dal popolo come realmente alieni: si narra che Muin-ud-din Chisti non solo fosse riuscito a convertire con la sua predicazione il rajha locale Ram Deo, ma anche il bhakti yogi shivaita Jaipal, che godeva in loco di grande fama di santità, dopo essere stato coinvolto in una sfida dialettico-religiosa col sant'uomo. O che uno dei discepoli di Muin-ud-din Chisti, Farid-ud-din Gan-i Shakr, stabilitosi in un piccolo villaggio del Punjab per condurre in perfetto isolamento la propria vita da santo eremita, fosse stato venerato dagli abitanti hindu del villaggio fino a raccogliere attorno a sè una vasta cerchia di discepoli, i quali finirono per invocarlo come Baba Farid, cioè con l'appellativo reverenziale generalmente riservato ai Sadhu. Lo stesso accadde anche a Baba Nur ad-Din (1377-1438) che fu addirittura soprannominato rishi, saggio veggente, ma anche "colui che fa vedere", in quanto rappresentava un tramite col divino per i comuni mortali. I suoi seguaci diedero vita alla Rishiyyah, confraternita ancora oggi molto diffusa in Kashmir, dove Baba Nur ad-Din è stato per secoli trasversalmente venerato come santo patrono e che ha portato un ordine musulmano ad avere un nome di origini vediche.

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