IL RUOLO DELLA NAQSHBANDIYYA E DELLL'IMAM SHAMIL NELL'INDIPENDENZA CECENA
Tra il XVIII e il XIX secolo nel Caucaso del Nord fece la sua comparsa la Naqšbandiyya (nella variante Naqšbandiyya-Khalidiyya). Il rigorismo della confraternita venne subito accolto con entusiasmo dalle popolazioni animiste del Daghestan e della Cecenia, che abbracciarono immediatamente l’islam. Il fatto che popolazioni rurali e semianalfabete avessero di colpo adottato la fede musulmana preoccupava grandemente l’ala slavofila dell’intellighenzia russa, la quale vedeva il proprio “Oriente interno” minacciato dalla “religione degli infedeli”. Gli slavofili pensavano che la vera fede fosse quella russa all’interno della quale la vita semplice dei contadini era, a loro dire, l’emblema della cristianità. Con tutte queste premesse il popolo russo era, in definitiva, il popolo portatore della verità per eccellenza, che viveva ciò come una vera e propria missione nel mondo. A ciò si aggiungeva il problema dell’ignoranza religiosa dei contadini, presso i quali la cultura pagana era ancora qualcosa di vivo e tangibile e, soprattutto, della fede musulmana professata dai popoli ai margini dell’impero. Riportare in quei luoghi la cristianità ortodossa era dunque fondamentale per i russi.
La crociata in nome dell’ortodossia cristiana divenne la matrice filosofica della campagna militare caucasica. Tuttavia vi era un altro problema: le truppe russe stanziate nel Caucaso erano arretrate e mal equipaggiate, la disciplina era scarsa e la corruzione dilagante.
L’impero russo aveva provveduto a mandare in quelle zone, oltre a geografi, insegnanti e etnografi, numerosi missionari ortodossi, con il compito di fondare nuove comunità cristiane. L’inevitabile fallimento che ne seguì venne percepito come una minaccia alla purezza dei costumi russo-ortodossi.
Inoltre si aggiungeva un odio feroce da parte dei russi verso i musulmani che vivevano in quelle regioni di montagna. Questi ultimi avevano sviluppato nel tempo tattiche belliche di vera e propria guerriglia molto diverso dal modo robotico – tipicamente russo – di condurre le operazioni militari.
Tutto il Dagestan e tutta la Cecenia obbedivano all’Imam Shamil, il loro governatore supremo, nonché capo nella lotta contro gli infedeli. Nella sua persona erano riuniti tutti i poteri: spirituale, amministrativo e militare.
I russi dovettero fronteggiare una serie di sollevazioni popolari di matrice musulmana che, pur risolvendosi in un insuccesso, dimostrarono la capacità dell’islam di creare consenso e di radunare intorno a sé un movimento più o meno organizzato di resistenza. Le confraternite sufi, soprattutto la Naqšbandiyya, furono uno dei fattori di coesione più importanti, agendo da collante in un contesto nel quale l’animismo si mescolava all’islam dei mullah locali o dei sufi itineranti.
La tariqa naqšbandi ha svolto una parte preponderante nella storia del Caucaso. La disciplina ferrea, la consacrazione totale ai propri ideali e la gerarchia rigorosa su cui si fondava spiegano l’epica resistenza dei montanari caucasici alla conquista russa, che durò dal 1824 al 1859. Infatti non soltanto tutti i capi del movimento, ma anche le autorità locali (na’ib) e la maggioranza dei combattenti erano murid (seguaci) naqšbandi.
Il successo della Naqšbandiyya era dovuto a una serie di ragioni: prime tra tutte, come prevedibile, l’atteggiamento autoritario dei russi e la completa distruzione delle strutture politiche e sociali (senza contare il duro colpo inferto alle forme tradizionali di agricoltura e di sostentamento) affiancate da spedizioni punitive e dall’introduzione su larga scala di bevande alcoliche. Erano tutte azioni volutamente anti-musulmane tra cui anche l’aumento della tassazione per i mussulmani e con la finalità di distruggere ogni identità locale non russa.
Tutto ciò fece emergere l’esigenza di un rinnovamento profondo, dato che il comportamento dei leader locali era, agli occhi della popolazione, profondamente contrario ai principi dell’adat e della shari’a. La Naqšbandiyya fu abile a sfruttare il momento opportuno e a proporsi alla popolazione con il giusto pragmatismo. Il primo moto di ribellione anti-russa fu quello capeggiato da shaykh Mansur, che si concluse con la sua cattura e uccisione. Le repressioni che ne seguirono fecero scomparire la Naqšbandiyya e i suoi adepti per circa quarant’anni. Tuttavia gli sforzi di Mansur non furono vani. L’islam si rafforzò e riuscì a trasformare il Caucaso nel bastione della resistenza musulmana contro i russi.
Il nuovo ruolo del Caucaso di roccaforte della resistenza fu dovuto proprio all’operato dei sufi naqšbandi: i primi due imam del Daghestan, appartenenti alla silsila (la gerarchia di trasmissione del potere in una confraternita) della Naqšbandiyya, non fecero altro che preparare la strada alle azioni del terzo imam shaykh Shamil, il più famoso leader a tentare di creare uno stato comune che trascendesse le confederazioni e i particolarismi tribali. L’islam di Shamil era la concreta espressione del rigore naqšbandi: musica, alcool e tabacco furono banditi, vennero ripristinate le antiche leggi sciaraitiche e aperte nuove scuole per lo studio del Corano e della shari’ah. Il governo religioso-militare dell’imam incontrò la resistenza delle tribù rivali che, a causa degli intrinseci particolarismi, mal sopportavano il suo progetto unificante. In breve tempo l’ostilità tribale portò Shamil alla sconfitta e nel 1859 fu costretto ad arrendersi dopo aspri combattimenti sulle montagne.
In sintesi la vittoria russa fu da imputare ad una serie di ragioni: l’uso delle armi da fuoco, l’abilità del generale Evdokimov, la progressiva dispersione dei guerriglieri e, soprattutto, l’oro e l’argento che i russi elargirono a piene mani ai locali, fiaccati da anni di costante guerriglia.
Shamil, grazie alle proprie abilità personali e ad un’attenta gestione dello Stato, fu in grado di radunare intorno a sé un’intera popolazione, ma seppe anche sfruttare il consenso popolare che la propria figura di “inviato del Profeta” gli garantiva. La sua lotta rimane ancor oggi nella memoria collettiva cecena e daghestana contribuendo a plasmare l’islam locale.
Con la sconfitta di Shamil le attività dei sufi subirono una brusca battuta di arresto. Molti murid naqšbandi emigrarono mentre altri, scoraggiati per la disfatta e l’occupazione militare russa, si rivolsero a un’altra confraternita sufi, la Qadiriyya.
Introdotta nel Caucaso verso la metà del XIX secolo dal pastore kumiko Kunta Hajj, si caratterizzava per un approccio più mistico e ascetico rispetto al rigore della Naqšbandiyya. I suggestivi riti qadiri ebbero grande successo,soprattutto tra i più poveri e i meno colti e moltissime furono le conversioni. Tuttavia i murid, repressi e mortificati dal potere russo (molti erano vecchi combattenti di Shamil), incominciarono a vedere la propria appartenenza religiosa in funzione antirussa e a elaborare il concetto di guerra santa. Le rivolte che ne seguirono – come quella polacca contro le mancate riforme di Alessandro II (1863) – portarono nel 1864 all’arresto e alla deportazione di Kunta Hajj, nonché alla repressione e all’uccisione di un gran numero di musulmani. Nel 1886 terminarono le operazioni nel Caucaso: la Russia controllava ormai le montagne, la Georgia transcaucasica, l’Armenia orientale e l’attuale Azerbaigian.
La lotta contro l’islam non era però ancora terminata: nel 1877, durante la guerra russo-turca, Naqšbandiyya e Qadiriyya, rispettivamente nel Daghestan e in Cecenia, per la prima volta unite presero parte a una grande ribellione. Come prevedibile la repressione russa fu durissima: migliaia furono i murid impiccati o deportati in Siberia. Tuttavia ancora una volta l’islam delle tariqe sufi, anziché indebolito, ne uscì rafforzato. Le tariqe, complici il carattere clandestino e la rilevanza di alcune figure di “banditi d’onore” (i cosiddetti abrek), si ammantarono di un enorme prestigio che restò inalterato fino agli inizi del Novecento. Roccaforti del sufismo, il Caucaso e il suo islam diventarono il centro della resistenza anti-russa mentre altrove, nel resto del mondo islamico, gli ordini mistici andavano perdendo il proprio influsso politico ed erano relegati al fondo della vita politica da parte del riformismo radicale o liberale. Gli ordini sufi del Caucaso, lungi dal decrescere, finirono con assorbire di fatto l’Islam ufficiale. Mentre stava chiudendosi il secolo XIX quasi tutti gli «arabisti» e gli ulama del Dagestan e della Čečenia erano membri di una tariqa e riuscirono a identificarsi con la resistenza nazionale, con il risveglio del nazionalismo e, più in generale, con la lotta per la sopravvivenza contro la pressione russa