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Sibilla Mannarelli

LA SATYAGRAHA DI GANDHI


Satyagraha (letteralmente «fermezza per la verità») è la teoria etica e politica elaborata e praticata da Gandhi nei primi anni del Novecento alla base della disobbedienza civile e della lotta nonviolenta (con alla base il concetto di Ahimsa, non violenza, di origine indiana e buddista).

Il primo caso di “resistenza passiva” o “disobbedienza civile” venne promosso da Gandhi in Sudafrica l'11 settembre 1906.

Successivamente Gandhi, nel 1907, avviò una riflessione volta a discutere criticamente l'uso di questi termini. Alcuni anni dopo (circa nel 1913) Gandhi iniziò a rifarsi al termine "ahimsa" = nonviolenza / innocenza (letteralmente: "assenza della volontà di nuocere"). Gandhi cominciò a riflettere sul fatto di intendere ahimsa in maniera “positiva” ed “attiva” e non semplicemente come pura "assenza di violenza" ma come forza altra, distinta dalla violenza e ad essa opposta, da lui definità "forza che dà vita".

L’utilizzo del termine “Satyagraha” derivò dall’idea di Gandhi di indire il 18 dicembre 1907 dalle colonne del settimanale degli indiani del Sudafrica "Indian Opinion" un concorso per trovare un nome che permettesse di cogliere a pieno lo spirito del metodo.

La proposta vincente fu suggerita da shri Maganlal Gandhi e fu sadagraha cioè “fermezza in una buona causa”. A Gandhi la parola piacque, ma come disse lo stesso Gandhi: “affinché fosse più comprensibile io poi la cambiai in satyagraha, che da allora in poi è diventata comune in lingua gujarati per definire la nostra lotta”.

Il 10 gennaio 1908 Indian Opinion pubblicò per la prima volta la parola Satyagraha, che da allora divenne il nome ufficiale del movimento e del metodo di lotta intendendo la forza che nasce dalla verità e dall'amore.

Le fonti per tale concetto di “non violenza” derivavano da diverse religioni ossia quella induista, buddista, zoroastriana, cristiana e giainista nonchè da alcuni saggi letterari quali “Disobbedienza civile” di Thoreau, “Il regno di Dio è in voi” di Tolstoj e “A quest’ultimo” di Ruskin.

Il pensiero satyagraha si basava su una concezione filosofica e religiosa nonchè morale che si poneva come supremo obiettivo dell’uomo la ricerca della verità assimilata a Dio, amore e nonviolenza.

Il satyagrahi (colui che pratica il satyagraha) aderiva a undici principi:

• non violenza;

• verità;

• non rubare;

• castità;

• rinuncia ai beni materiali;

• lavoro manuale;

• moderazione nel mangiare e nel bere;

• impavidità;

• rispetto per tutte le religioni;

• swadeshi (uso dei prodotti fatti a mano);

• sradicamento dell'intoccabilità.

Il satyagraha era una forma di lotta politica e sociale dotata della massima efficacia se utilizzata per fini nobili e degni (in una sorta di Karma Yoga in quanto da praticarsi senza fini personali e con distacco dai frutti della stessa).

Nel pensiero satyagraha vi è identità tra fine e mezzo, per raggiungere una meta giusta l'unico modo è quello di usare metodi pacifici e nonviolenti, con amore verso il "nemico" (in un approccio molto “cristiano” per cui si ama il prossimo come se stessi – Gesù era considerato da Gandhi uno dei suoi più importanti maestri e definito il “Principe della nonviolenza”).

Il satyagraha si pone come obiettivo l’elevazione e purificazione di chi lo pratica distinguendo il peccato dal peccatore e, mentre verso il primo ci si scaglia con tutta la propria forza, verso il secondo ci si deve invece comportare fraternamente. L’obiettivo non è, quindi, la distruzione dell'avversario, ma la sua convinzione (con-vincere, vincere con) e la pacifica convivenza di entrambi.

Chi pratica il Satyagraha (non solo Gandhi e i suoi seguaci ma tutti quelli che nel tempo hanno seguito questo tipo di approccio ) intende dare forza all'avversario che usando metodi violenti è in realtà debole e per questo necessita della forza spirituale che si sprigiona durante un'azione nonviolenta.

Nel satyagraha vi è una forte tensione morale: i valori sono una componente fondamentale del pensiero e dell'azione, in ogni campo (sociale, politico, religioso, economico, culturale, ecc.). Vi è inoltre un forte distacco dai desideri e dalle passioni (intese in senso negativo), in quanto un eccesso indurisce il cuore dell'uomo, lo sporca e lo stanca.

Rispetto alla morte il satyagrahi non prova timore, poiché non si può uccidere ciò che non può morire (il proprio frammento di divino ovviamente non destinato a morire). La morte è il dono estremo con cui un essere umano si offre alla propria causa e al suo avversario, conscio che anche in questo modo serve la Verità (che ricordiamo è molto vicina al concetto di Dio) e il bene.

Il satyagrahi mostra la via giusta.

La disobbedienza civile potrebbe anche rendere necessario infrangere una legge ingiusta quando in contrasto con la superiore legge morale e trasgredendola viene accettata senza rimorso la pena corrispondente. Alla base di questo atteggiamento si trova la convinzione della superiorità dello spirito (in quanto derivante dalla legge morale) rispetto al corpo che può anche essere condannato alla sofferenza che potrebbe derivare da un danno economico o dalla permanenza in prigione.

Il satyagraha si è tradotta in molteplici forme storicamente sperimentate: la non collaborazione nonviolenta, il boicottaggio, la disobbedienza civile, l'obiezione di coscienza alle spese militari, l'azione diretta nonviolenta, il digiuno, ecc., nonché, in termini più generali, il pacifismo.

Nel soggiorno in Sudafrica Gandhi praticò alcune forme di disobbedienza civile bruciando pubblicamente i lascia-passare di cui era dotato ogni indiano e che sancivano ufficialmente la diversità con gli uomini bianchi.

Quando il governo emanò una legge che proibiva ai cittadini indiani di oltrepassare il confine, organizzò una marcia disarmata che terminò al di là dei confini proibiti. Furono arrestati a migliaia e il governo dovette arrendersi per l'incapacità fisica e logistica di gestire la situazione.

Sempre in Sudafrica Gandhi organizzò numerosi scioperi a favore dei minatori sfruttati in modo disumano.

Non bisogna poi dimenticare la marcia del sale del 1930 in India. Il governo inglese aveva imposto una tassa sul sale che andava a colpire pesantemente tutta la popolazione indiana con particolare danno dei più poveri. Gandhi e i suoi collaboratori partirono in 78 e i loro nomi vennero pubblicati sui giornali perché la polizia ne fosse informata. Percorsero a piedi duecento miglia marciando per 24 giorni e quando arrivarono alle saline erano diverse migliaia. Alla fine Gandhi raccolse un pugno di sale e successivamente i suoi seguaci senza armi e con il sorriso sulle labbra andarono incontro alla polizia che li colpì con gli sfollagente, ma gli stessi seppur feriti continuarono ad avanzare silenziosi subendo qualsiasi trattamento senza reagire neanche per difendersi. La polizia fu colta da un vero e proprio senso di impotenza davanti a questa moltitudine che reagiva in maniera del tutto nuova e diversa.

In India Gandhi e il Congresso organizzarono anche diversi altri scioperi e boicottaggi (es. contro gli abiti inglesi a favore del costume tradizionale indiano, il khadi, che lo stesso Gandhi tesseva a mano).

Gandhi sosteneva che l’atteggiamento dovesse essere quello che si aveva in famiglia dove la norma è l'affetto sincero nei confronti del contendente e l'obiettivo non è l'eliminazione fisica, ma la ricerca di un accordo. Secondo Gandhi tutti appartenevano alla stessa grande famiglia sia gli esseri umani che tutti gli esseri viventi (e proprio per questo Gandhi era anche vegetariano).

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