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Massimo Mannarelli

IL DADAISTA EVOLA


Giulio Cesare Andrea Evola, meglio noto come Julius Evola (Roma, 19 maggio 1898 – Roma, 11 giugno 1974), è stato filosofo, pittore, poeta, scrittore ed esoterista italiano. Fu personalità poliedrica nel panorama culturale italiano del Novecento, proprio in ragione dei suoi molteplici interessi: arte, filosofia, storia, politica, esoterismo, religione, costume, studi sulla razza.

Julius Evola é indicato come il principale esponente in Italia del Dadaismo.

Il dadaismo ha sempre incarnato un’espressione sconfinante, con momenti, riflessioni ed esistenze differenti, all’interno del proprio svolgersi; ma sempre con una idea di sintesi e totalità finale, peraltro presente in diversi aspetti e autori del movimento. Evola stesso rifiutò di distinguere e separare i momenti più significativi del suo percorso culturale. Ne rivendicò, infatti, il senso complessivo e la continuità fra l’espressione artistica e il percorso filosofico: «Nell’essenziale, sussiste una continuità attraverso tutte le varie fasi della mia attività».

In Italia fu fra i primissimi a rappresentare la corrente dell’arte astratta, in connessione col dadaismo. Conobbe personalmente Tristan Tzara e altri esponenti del movimento e con il primo intrattenne una corrispondenza epistolare. Nella sua autobiografia intellettuale “Il cammino del cinabro”, Evola terminava la parte dedicata al suo passaggio dadaista, con le seguenti parole: «Non scrissi poesie né dipinsi più dopo la fine del 1921». Nello stesso capitolo apparivano significative le affermazioni di Tristan Tzara, riportate da Evola: «Che ognuno gridi: vi è un gran lavoro distruttivo, negativo, da compiere. Spazzar via, ripulire. Senza scopo né disegno, senza organizzazione, la follia indomabile, la decomposizione».

Il transito dadaista di Julius Evola nella poesia è espresso dai testi, compresi fra il 1916 e il 1922, che avrebbero formato la raccolta “Ràaga Blanda” e dal poemetto a quattro voci “La parole obscure du paysage intérieur” (tradotto dall’italiano in francese dall’autore insieme a Maria de Naglowska) che rappresentò il suo estremo approdo lirico.

Evola riprese la dimensione simbolista per esprimere una materialità linguistica autonoma da utilizzare con il suo potere evocativo, attraverso l’orchestrazione dei sensi, emergendo da gruppi d’immagini apparentemente slegate (come nell’alchimia della parola di Rimbaud).

Egli sostituì l’iniziale astrattismo sentimentale con uno apassionale. La lirica non doveva esprimere più nulla, in quanto comunicazione pura, libertà incondizionata, dominio dei mezzi d’espressione. Si entrava in un’atmosfera assolutamente rarefatta, ossessionante di alogicità e di orgasmo interiore.

Lo scritto giovanile “Arte Astratta” (composto da una introduzione teorica seguita da dieci poemi e quattro composizioni), pubblicato nel 1920 per Collection Dada (Zurigo), è da considerare la sua prima opera. È una raccolta di riflessioni, composizioni poetiche, riproduzioni di quadri. Il contributo teorico abbozzato è significativo, sintomatico dello spessore intellettuale dell’autore, oltre che essere testimonianza del tempo, ondeggiante fra desiderio di ordine e rottura: «Esprimere è uccidere. Dunque non si può né si deve esprimere».

In nome di una superiore libertà, denuncia l’aspiritualità di ciò che viene abitualmente considerato spirituale, auspicando il valore di un’estraneità mistica, impassibile e dominatrice più che estatica.

Per Evola l’arte astratta si costituiva sul principio di un “formalismo assoluto” e sull’espressione di una volontà cosciente, lucida, protesa a «portarsi di là dalla vita» e a non immergersi in essa. Poteva diventare così «un metodo dello spirito», in arte come altrove, proprio nel suo essere un metodo astratto, non pratico, della purità e libertà. Questa astrazione diveniva a sua volta posizione interiore che poteva essere “oggettivizzata” nel linguaggio artistico e poetico.

L’adesione al Dadaismo venne comunicata a Tzara nei primissimi giorni del 1920. Evola, con gli scritti e la pittura, ne attraversava le contraddizioni fino a risvolti imprevedibili, condividendone la radicale essenza nichilista, oppositiva a ogni valore acquisito dell’arte e della morale. La sua particolarità era anche quella di aderire al Dadaismo (che rifiuta la formulazione di linguaggi stabiliti) per poi teorizzarne una possibile estetica ed esprimerne opere con un intrinseco equilibrio e valore artistico, contrariamente alle intenzioni del movimento.

Nella lettera che Evola scrisse a Tzara nel ’21, per accompagnare una copia del poemetto “La parole obscure”, questo veniva definito «una specie di documento di un episodio della mia vita». La vocazione trascendentale espressa dal testo poetico aveva un percorso di ampliamento visivo nella copertina disegnata dall’autore stesso, riempita da specifici segni che costruivano la sua complessità.

Questa poesia può essere letta anche come espressione di un percorso di formazione: quello proteso verso una conoscenza sempre più approfondita della tradizione ermetico-alchemica, la cui cultura si muove fra Simbolismo, Futurismo e Dadaismo.

Nell’esposizione dadaista a tre, con Gino Cantarelli e Aldo Fiozzi, alla Casa d’Arte Bragaglia, a Roma (aprile 1921), erano ben visibili i diversi indirizzi presenti all’interno del gruppo (in Fiozzi per esempio è esplicito il riferimento meccanicistico). All’inaugurazione della mostra Evola tenne una conferenza, in cui presentava il Dadaismo in Italia, la rivista mensile «Bleu» (che si pubblicava a Mantova e che sarebbe uscità in tre numeri) e indicava come principali aderenti al movimento se stesso, Gino Cantarelli, Bacchi, Fiozzi, Vices-Vinci. Nel suo intervento decretò, con toni fortemente polemici, l’esaurimento del Futurismo. Marinetti prese atto che, per la prima volta, si svolgeva una manifestazione d’avanguardia esplicitamente dichiarata come non futurista. Ma non fu questo il primo attacco al padre fondatore del Futurismo: già nel gennaio dello stesso anno, su «Bleu», Evola aveva firmato, assieme a Cantarelli (che con Fiozzi dirigeva la pubblicazione), una pesante riflessione contro Marinetti e il suo movimento: “Dada soulève tout”.

Le visioni, che Evola affidava alla sua pittura e poesia, pur appartenendo allo specifico linguaggio usato, possedevano una comunicazione sinestetica che risultava anche immagine-concetto. Accompagnavano, in maniera sotterranea, il suo procedimento di pensiero, che sottintendeva simultaneamente quello esoterico e propriamente alchemico. Le composizioni astratte dei suoi Paesaggi interiori possono essere lette appunto come un “pensare”, attraverso la visione di spazi siderali: con il colore che assume pregnanza simbolica e con i riferimenti a un percorso ermetico-alchemico. L’astrazione di Evola è mistica, in quanto la combustione alchemica ha come dinamica la purificazione spirituale. L’alchimia, in lui, divenne creazione, lettera-concetto e procedimento immaginale di pensiero, travalicando i confini fra le arti.

Nel ’63 Evola fornì una spiegazione al riguardo: «L’arte astratta, nello sfociare nel Dadaismo, rappresentò un limite, raggiunto il quale non restava che da tacere, o da passar oltre, o, nei casi estremi, di battere la via di un Rimbaud o di coloro che posero fine alla propria vita». Ed Evola probabilmente “silenziò” la parola poetica per “finire” il proprio sé umano.

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