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Massimo Mannarelli

ZIGONI. CALCIO, VITA SPERICOLATA E CRISI MISTICHE


Gianfranco Cesare Battista Zigoni (Oderzo, 25 novembre 1944) è stato calciatore italiano, attaccante di talento, che imperversò tra gli anni Sessanta e Settanta dissacrando il sistema calcio.

Nato nel quartiere Marconi, che amava chiamare il mio Bronx, poco prima della fine della guerra, ricordava che dalla sua culla sentiva le bombe cadere e che da quale momento qualcosa nella sua mente era accaduto dando a lui quel tocco di pazzia

Da bambino girava armato di fionda, mentre più cresciuto teneva sotto controllo il territorio con la carabina.

Al suo attivo si annoverano 265 presenze e 63 gol in Serie A con le maglie di Juventus, Genoa, Roma, Verona, oltre a tre convocazioni in Nazionale, con la quale scese in campo solo una volta, esordendo a Bucarest nel ’67 e giocando («Divinamente, d’altronde ero il più forte…») solo un tempo, nella ripresa decise infatti che era meglio riposare: «Faceva un caldo terribile. Nel secondo tempo Rivera andò a cercarsi l’ombra sotto la tribuna, e gli altri fecero più o meno lo stesso. E perché io dovrei essere l’unico a correre?, pensai. Esordiente sì, ma cretino no». L’Italia vinse, ma da quel giorno “Zigo” non giocò più in maglia azzurra.

Ma già durante un ritiro con la nazionale Juniores si fece conoscere, tirando addosso a Boninsegna una palla da biliardo: «Era appena arrivato in Nazionale e voleva fare tutto lui: battere le rimesse laterali, le punizioni, i calci d’angolo e allo stesso tempo andare a colpire di testa. Gli ho fatto capire chi comandava». Mancò di un niente l’occhio di Bonimba, che da quel giorno girò al largo dalle punizioni e calci d’angolo.

“Si. In una partita, racconta, avevo portato del liquore dalla Spagna, dopo la Coppa Campioni con la Juve, e c’era il torneo di Viareggio. Per festeggiare il fatto che a 17 anni ero stato aggregato in prima squadra, mi sono scolato mezza bottiglia di cognac spagnolo e sono andato in campo ubriaco, col mio allenatore che non capiva cosa avessi”. Ancora oggi afferma “Potrei giocare da ubriaco. Il calcio? Non l'ho mai amato davvero”

Nella Juventus dove ebbe l’unico rimpianto, di essersi tagliato i capelli: ma ero troppo giovane, racconta, non avevo la forza di ribellarmi agli Agnelli; ebbe una discussione con l’allora allenatore Heriberto Herrera, lo alzò da terra, chiamò la squadra sotto la finestra della sua stanza e lo lasciò ciondolare nel vuoto per un paio di minuti: “Un giorno, alla vigilia di una partita di Coppa, mi ha chiamato in camera sua e prima ancora che aprissi bocca mi ha piantato un pugno nello stomaco. Ho preso paura perché aveva gli occhi iniettati di sangue. Ma è stato un attimo. Gli sono saltato addosso e l’ho spinto vicino alla finestra aperta. Si è calmato subito e abbiamo cominciato a parlare come niente fosse”.

Dopo un Lazio-Juve uscì in mutande all’Olimpico, perché il difensore che lo marcava non riuscendo a stargli dietro gliele aveva sfilate. «Con le regole di oggi, se qualcuno cercasse di fermare uno come Zigo si beccherebbe il cartellino rosso dopo cinque minuti. Dicono che una volta si giocava al rallentatore? Balle. Questi di oggi corrono, perché non sanno fare altro. Si chiamano “calciatori” perché calciano tutto quello che gli capita sotto tiro. Noi eravamo “giocatori”, perché ci piaceva giocare».

Passò poi alla Roma dove durante una partita, prima di una punizione dal limite finse di litigare con Bob Vieri (il padre di Christian) e cominciò a tirargli la barba. «Era un modo per far perdere la concentrazione al portiere». Inutile dire che tirò la punizione e segnò. Di questa esperienza disse ho provato più gioia quando in giallorosso vinsi il torno italo-inglese che per lo scudetto con la Juventus nel 1976-77; in bianconero ero un numero, nella Roma ero un uomo; nella capitale vissi un momento poetico.

Ma fu nella “Verona Beat” quella dei veronesi tutti matti che Zigo goal (come venne soprannominato) venne amato a tal punto che egli stesso ammise che il suo unico rammarico di aver tradito i tifosi e la città dando meno di quanto la gente avesse dato lui.

Proprio a Verona dove giocò dal 1972 al 1978, sognava di morire sul campo, con la maglia del Verona addosso. “M’immaginavo i titoloni dei giornali e la raccolta di firme per cambiare il nome allo stadio: non più Bentegodi, ma Gianfranco Zigoni. La radio avrebbe gracchiato: ‘Scusa Ameri, interveniamo dallo Zigoni di Verona…’”

Il Bentegodi fu lo stadio dove, dopo che Valcareggi lo escluse dalla formazione titolare, si presentò (dopo aver scommesso con due compagni di squadra) in panchina con una pelliccia di volpe e un cappello da cowboy. «Ma la domenica dopo il vecchio Valca mi fece giocare».

L’amico Logozzo protestò perché in ritiro tutta la squadra era costretta ad alzarsi alle 8 mentre Zigo poteva starsene a letto fino a quando gli pareva. «Valcareggi lo prese da parte e gli disse: quando avrai anche tu due piedi come Zigoni, allora potrai dormire fino a mezzogiorno».

Zigoni si fece cucire la Zeta («Di Zigoni e di Zorro») sui pantaloncini. «Fui il primo, trent’anni fa non si usava, e fui anche il primo a giocare con le scarpe rosse e gialle, i calzoncini strappati e le magliette aderenti che lo facciano sembrare un ballerino. Sono sempre stato uno spirito libero, racconta Zigo, ero sempre me stesso, nel bene e nel male: non come i calciatori di oggi che sembrano fatti con la fotocopiatrice. A quei tempi, giravo in Porsche. Oggi ce l’hanno tutti. E allora vado in bici». «Ma non ho mai frequentato il gregge. Ho accumulato più giorni di squalifica che gol perché non sottostavo ai soprusi degli arbitri. Dicono: bisogna credere alla buona fede di quei signori. Ma per favore, ho visto furti inimmaginabili e ho pagato conti salatissimi. Una volta mi diedero sei giornate di squalifica e trenta milioni di multa perché dissi a un guardalinee di infilarsi la bandierina proprio là. Trenta milioni degli anni Settanta: all’epoca con quei soldi compravi due appartamenti. Il prezzo della mia libertà di opinione».

Esce anche un episodio che vede protagonista Francesco Guidolin, allora agli inizi, e Zigo, ormai alla fine della carriera, dividevano la stanza durante i ritiri con il Verona. Racconta Gianfranco riferendosi alla domenica mattina, giorno della partita: «Io non rendo se mi alzo presto [la domenica mattina], io devo dormire. Guidolin dormiva in camera mia e alle 8 del mattino si alzava cercando di non svegliarmi. Qualche volta lo sentivo e gli dicevo: “Guido, per me il solito: fammi portar su la colazione alle 10, spremuta d’arancio, latte e una brioche”».

Gli piacevano le armi e nei ritiri si divertiva a prendere di mira i lampioni. Assieme a Mascalaito, suo compagno al Verona, e per la disperazione di Valcareggi. «Finché un giorno – racconta Zigo-gol – a caccia, colpii un merlo, che cadde vicino a un laghetto. Mi avvicinai per raccoglierlo e incrociai il suo sguardo. Lui era ferito, ma vivo, e i suoi occhi mi dicevano: “Brutto bastardo che non sei altro”. Mi sentii un mostro. Lo strozzai per non farlo soffrire, gettai la carabina e mi ferii volontariamente alla fronte con il filo di ferro di un vitigno. Sanguinavo. Il giorno successivo vendetti i fucili».

Ancora molti si ricordano di quando andò discutere il contratto col presidente del Verona Garonzi e sapendo che questi teneva una pistola nel cassetto della scrivania, aspettò il momento opportuno, aprì il cassetto, prese al volo la pistola e gliela puntò. Uscì dall’ufficio con un sostanzioso aumento. Garonzi che venne sequestrato nel 2005, quando fu liberato incontrò in ospedale Zigoni al quale chiese: “Zigo perché mi hai fatto rapire?”

Fu sempre quando era un giocatore dell’Hellas che viaggiando sulla sua Porsche azzurra, per evitare un trattore, uscì di strada, fece due-tre capriole, finì in un fosso, distrusse la macchina, non si fece un graffio e si finse morto. «Stavo tornando a casa dopo l’allenamento, ma andavo piano, te lo giuro. Dietro di me e ‘erano Maddè e Costa, il medico del Verona. Scesero dalle loro auto e corsero a prestarmi soccorso. Appoggiai la testa sul volante e finsi di essere morto: quando si avvicinarono di corsa al finestrino, sorrisi e gli feci l’occhiolino. Per poco non schiattarono lì sul posto».

Ma Zigoni era anche colui che prestava le sue porsche agli amici che si presentavano da lui dopo avergliele sfasciate e Zigo se ne usciva con “Stai bene? l’importante è questo, le auto si ricomprano”, e il giorno dopo andava in concessionaria e usciva con una porsche gialla.

Bellissimo il suo racconto sull’incontro con Pelé: «Sta’ a sentire, io avevo una grande opinione di me. Pensavo di essere il più forte calciatore sulla terra. In campo odiavo l’avversario e lo colpivo col mio pugno, che era micidiale. Fuori gli volevo bene e lo invitavo a bere un whisky. Un giorno, alla Roma, capita di incontrare il Santos di Pelé. In amichevole, all’Olimpico. Mi dico: “Oeh, giustizia sarà fatta, oggi il mondo capirà che Zigo-gol è più forte di Pelé”. Lo aveva già detto Trapattoni dopo un Genoa-Milan 3-1 degli anni Sessanta, tripletta mia. “Ragazzi – dichiarò il Trap quel giorno – Zigoni è meglio di O Rei”. Lo aveva ammesso Santamaria, gran difensore, dopo una sfida Juve-Real Madrid. Io avevo fatto impazzire il Santa, finte e tunnel, e quello a fine partita si rivolse così a Sivori: “‘Sto chico è migliore del negro”. Ero convinto della cosa, mi sentivo più bravo di Edson Arantes e di tutti i suoi cognomi. Poi arriva l’amichevole col Santos, vedo Pelé dal vivo e mi prende un colpo. Madonna, che giocatore. Ho una botta di depressione, di malinconia, penso che a fine partita annuncerò in mondovisione il mio ritiro dal calcio. Mi preparo la dichiarazione in terza persona: “Zigoni lascia l’attività, non sopporta che sul pianeta ci sia qualcuno più forte di lui; A un certo punto il Santos beneficia di un rigore, Pelé va sul dischetto e Ginulfi, il nostro portiere, para. Allora è umano, penso, e così resto giocatore».

Nel 1977 sulla soglia dei trentatré anni, l’età del Signore, viene folgorato come San Paolo sulla via di Damasco. Si ritirò a vivere in parrocchia, dopo aver ceduto a Negrisolo (e consorte) l’appartamento-garconniere e aver detto bye bye a schiere di samaritane ricche di calore umano ma povere di fede. A ospitarlo fu un monsignore calciofilo conosciuto come Augusto che seppe prenderlo per il verso giusto. Gianfranco Zigoni girava con la Bibbia in una mano e «Famiglia Cristiana» nell’altra.

Viaggiava in bici da donna, senza canna per evitare le richieste di un passaggio, con quel che ne consegue, alle bicistoppiste dell’Adige.

Il George Best “De noantri” ha continuato poi la sua carriera calcistica se pur in squadre minori ed è diventato anche allenatore; ha avuto 4 figlie e si considera ancora un uomo alla ricerca di Dio, e ama fare ancora i suoi ritiri tra un ritratto del Che e l’icona di Padre Pio, parlando di calcio tra bottiglie di bianco, bicchieri di rosso, e fette di salame e uova sodo.

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