GEORGE HARRISON IL FIGLIO DI HARI
George Harrison lanciò “My Sweet Lord”, il suo primo singolo, in America nel novembre del 1970. Le vendite internazionali superarono subito le cinque milioni di copie. Il biografo Simon Leng definì il lancio di “My Sweet Lord” una delle “mosse più coraggiose della storia della musica pop”, perché c’era il rischio che rovinasse la carriera di Harrison.
In “I, Me, Mine,” George scrisse: “Ho pensato a lungo se fare o no “My Sweet Lord”, perché mi sarei impegnato personalmente davanti al pubblico e prevedevo che molte persone avrebbero ... potuto temere le parole “Signore” e “Dio” che per qualche strana ragione le irritano”.
George era veramente dotato di una mente incline alla spiritualità. Le sue canzoni riflettevano gli stadi progressivi dell’anima nel viaggio Vaisnava verso Krishna. Nella vita egli lottò, trovò un certo equilibrio e non si distaccò mai dalle sue convinzioni e sono soprattutto gli occidentali che possono imparare qualcosa sulla teologia della bhakti grazie al modo in cui George l’ha presentata.
Leng, nel libro “La Musica di George Harrison”, definì questa canzone “inno gospel unito a un canto vedico” e un “trionfo” perché era “ovviamente genuino ... La potenza della canzone deriva dall’emozione che trasmette”
L’appello ripetitivo, emotivo, misto alla compassione di sé “My Sweet Lord” è di certo “incantevolmente dolce, ma anche triste” (sempre parole di Leng). La canzone esprime una qualità estetica caratteristica della teologia Vaisnava. Questa qualità, tecnicamente conosciuta come viraha bhakti, è un amore per Dio che emoziona l’anima e nasce dall’angoscia della distanza e della separazione. Questo amore in separazione precorre l’unione completa, perché Dio risponde e si fa conoscere con il Suo abbraccio.
Srila Rupa Gosvami (1550 dopo Cristo) descrisse l’insieme di dolcezza e tristezza dovuto alla separazione da Dio in questo commento: “Se una persona sviluppa amore per Dio, amore per Krishna, il figlio di Nanda Maharaja, tutte le influenze amare e dolci di questo amore appariranno nel suo cuore. L’amore per Dio agisce in due modi. I Suoi effetti velenosi superano il potente e fresco veleno del serpente. Eppure si prova simultaneamente una felicità trascendentale che scorrendo vince l’orgoglio del nettare e riduce il suo valore.” (Caitanya caritamrita, Madhya 2.52)
L’estetica dolce-amara di “My Sweet Lord” toccò il cuore di milioni di persone. L’amore in separazione è una delle molte qualità estetiche della teologia Vaisnava e alcune di queste qualità sono illustrate in altri testi di George.
Ma come si sviluppò l’interesse di George per la spiritualità orientale? Quando i Beatles raggiunsero il culmine della fama, le esperienze di George con l’LSD e l’interesse per la musica indiana lo spinsero a cercare l’onnipresenza di Dio nella musica (nada brahma). La sua amicizia con Ravi Shankar, suonatore di sitar, lo portò in India. John Barham, un altro studente di Shankar, ricordava: “L’aspetto meditativo di certa musica indiana colpì George più di qualsiasi altra musica e questo influenzò profondamente lo sviluppo della sua identità.”
Tornato a incidere con i Beatles, George influenza il ritmo e la melodia indiana di “Within You Without You” nell’album Sergeant Pepper del 1967
Harrison rimase folgorato dalla lettura “Autobiografia di uno Yogi” di Paramahansa Yogananda ed infatti quest’ultimo fu messo sulla copertina dell’album “Sgt Pepper” dei Beatles.
Quell’agosto, George assistette a una lezione tenuta da Maharishi Mahesh Yogi a Londra e poi andò in ritiro con lui in Galles. Successivamente, insieme con gli altri Beatles, stette per tre mesi a Rishikesh con il maestro. Nel luglio del 1968, la ricerca di George fece capolino in “Yellow Submarine”. Egli era il Beatles mistico, che portava una collana di grani di legno e sedeva nella posizione del loto. A Londra, nel novembre del 1969, George incontrò un piccolo gruppo di devoti Hare Krishna. Riunendo il gruppo nello studio di Apple’s Abbey Road, incise il singolo “Hare Krishna Mantra” che diventò subito primo in classifica sia in Gran Bretagna che in alcuni altri Paesi.
George incontrò Srila Prabhupada (il fondatore degli Hare Krishna) in Inghilterra e fu da lui incoraggiato a scrivere canzoni su Krishna.
Tra le altre cose Prabhupada amava ricordare la coincidenza del suo cognome Harrison con Hari Son, figlio di Hari (uno dei nomi di Krishna).
Harrison appoggiò anche economicamente il maestro donando ventimila dollari per la pubblicazione del libro di Prabhupada “Krishna”, in cui si narrava la vita trascendentale di Krishna, come descritta dal X Canto del Bhagavata Purana. Nella prefazione George diceva che tutto si riconciliava in Krishna, Dio.
In un’intervista che riguardava il successo di “My Sweet Lord” e il suo triplo album “All Things Must Pass” del 1970, George disse: “Voglio essere cosciente di Dio. Questa è realmente la mia unica ambizione e tutto il resto della vita è secondario.”
Dai testi dell’album “Dark Horse” del 1974 George, pur nel suo percorso di progresso spirituale, ebbe una ricaduta e dovette lottare contro abitudini indesiderate. In queste canzoni ne parlò con totale onestà.
Da allora in avanti sembrò tuttavia aver trovato un equilibrio stabile tra l’esistenza materiale e l’impegno nel percorso spirituale. La sua determinazione diventò sempre più irremovibile. Questo appariva evidente nelle sue ultime canzoni e nei racconti di sua moglie Olivia. Per tutto il resto della vita la saldezza spirituale di George raramente venne meno e riferendosi agli ultimi tempi di suo marito, Olivia disse: “La questione della proprietà, dell’attaccamento e dell’identificazione con l’ego erano in prima linea nella nostra consapevolezza e George era sempre pronto a far notare che in realtà non c’è io, me o mio. George era instancabile nel mantenere il nostro obiettivo spirituale.”
Nei necrologi una delle sue citazioni più spesso ripetuta era “Tutto il resto può aspettare, ma la ricerca di Dio ...”
George Harrison è stato cremato in una bara di cartone qualche ora dopo la sua morte, e le sue ceneri disperse nelle acque del Gange, il fiume sacro dell'India, dalla moglie Olivia e dal figlio Dhani accompagnati da alcuni rappresentanti della setta Hare Krishna, di cui Harrison era diventato devoto. Proprio all’Iskon andarono il dieci per cento dell'eredità del «Quiet Beatle», stimata in 300 milioni di dollari mentre alcuni milioni di dollari furono destinati alle attività caritatevoli sostenute da Harrison stesso ed in particolare quelle delle organizzazioni che si occupavano della salute dei bambini nei paesi più poveri dell'Africa.