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Massimo Mannarelli

S.KOPP E IL PELLEGRINAGGIO DEL PAZIENTE NELLA PSICOTERAPIA


Sheldon Kopp nasce a New York il 29 Marzo 1929. Si forma alla New School for Social Research, scuola fondata nel 1919 da un gruppo di professori e intellettuali come un istituto moderno, progressista e libero dove gli adulti potessero cercare una imparziale comprensione dell'ordine esistente, la sua origine, crescita e il suo presente funzionamento.

Kopp porta avanti gli insegnamenti della scuola umanistica di psicoterapia a Washington, dove esercita per quasi tutta la vita, la sua missione di psicoterapeuta.

Come ogni psicologo umanista rifiuta l’aspetto deterministico della psicoterapia tradizionale, optando per un percorso più improntato sulla crescita potenziale dell’individuo.

Per anni lavora sia privatamente, ma anche come terapeuta nelle carceri e negli ospedali. Le sue esperienze lo inducono sempre di più a considerare la psicoterapia come uno strumento in grado di risvegliare la capacità dei pazienti di raggiungere in prima persona la guarigione e il miglioramento.

Per Kopp non solo la psicologia non è una nuova religione, ma l’approccio fideistico che gran parte dei terapeuti tenta di instillare nei propri pazienti, è dannoso.

Il paziente, secondo Kopp, deve trovare il modo di vivere la terapia attivamente, e non passivamente.

E’ proprio cercando di trasmettere questi concetti, che scrive “Se incontri il Buddha per strada uccidilo”, il cui sottotitolo è “Il pellegrinaggio del paziente nella psicoterapia”. Durante il decennio precedente, infatti, la terapia è diventata quasi una “moda”, soprattutto nei ceti più alti della società americana. Si parla di psicoterapia quasi come di una religione con nuovo dogmi ed il terapeuta, in grado di cambiarti radicalmente la vita.

Quest’ultimo appare come una specie di guru, in possesso della chiave per aprire la mente umana, una guida illuminata a cui l’uomo si rivolge per risolvere i propri problemi.

Kopp, con la sua opera, intende mettere in chiaro un aspetto fondamentale della terapia: l’unico che può aiutare il paziente è il paziente stesso.

Il lavoro di Kopp parte da una premessa storica e filosofica. Nel corso del tempo l’uomo, per riuscire a risolvere i propri dolori e combattere i dubbi sulla vita, si è sempre affidato a delle “guide“, figure religiose, politiche, istituzionali, spirituali. Uomini che insegnano ad altri uomini come vivere la propria vita.

Per Kopp questa percezione dell’esistenza è di tipo sistemico, e affonda le radici nell’infanzia e nella visione che abbiamo dei genitori e della famiglia.

Per Kopp non c’è alcun lato positivo nel magnificare il periodo della nostra vita in cui abbiamo avuto meno controllo su noi stessi e sul mondo esterno. L’infanzia incarna la passività e la sottomissione. Si caratterizza per il bisogno di agenti esterni che facciano per noi quello di cui abbiamo bisogno, che trovino il significato della nostra vita, e ci dicano come perseguirlo, perché da soli non abbiamo il coraggio di farlo. E’ proprio perché alcuni individui, chiarisce Kopp, non superano mai questa fase, che tendono a ricercare continuamente nuove figure genitoriali.

Attraverso questi “nuovi maestri e nuove guide” si adagiano in quella che possiamo chiamare “comfort zone” in cui tutto rimane statico. L’autore nel suo libro scrive: “ci sono pazienti che vogliono semplicemente star bene. Non cambiare le dinamiche che provocano il male”. Questa dinamica comporta solo uno stato di dipendenza verso il terapeuta. Non guarigione e progresso.

Per Kopp l’unica arma che il paziente ha per cambiare la sua condizione di disagio psichico ed esistenziale è il desiderio di crescita interiore e di emancipazione.

Il paziente possiede in sé tutte le risorse per comprendere se stesso e individuare la propria strada.

Kopp muta drasticamente la figura del terapeuta: lo psicologo diventa semplicemente un compagno di viaggio, un osservatore in grado, grazie ai suoi studi, di aiutare il paziente a individuare le sue capacità per poter farcela da solo e diventare autonomo.

Tale figura deve solo aiutare il paziente a uscire dal bisogno di rassicurazione, dal supporto incondizionato e dalla fame genitoriale: egli però non lo fa più da un piedistallo, ma partendo dalla consapevolezza che siamo tutti sullo stesso piano, tutti pellegrini.

Il terapeuta non solo non è un maestro, non esistono i maestri, ma solo un’anima affine al paziente che ha come unico fine quello di riuscire a sbloccare in lui il senso di perdita per i falsi costrutti di controllo che ha su se stesso, ossia quell’apparato che non gli permette di sentirsi all’altezza delle proprie responsabilità.

Per fate tutto ciò il paziente “pellegrino” deve perdere, come primo passo, il senso di protezione da parte di terzi per approcciarsi come adulto alla terapia stessa.

Il paziente deve, scrive Kopp, rinunciare al controllo del cavallo e riconoscere di essere lui stesso un centauro.

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