IYENGAR TRA I CHASSIDICI. LO YOGA KOSHER DEI KOLBERG
Rachel, immigrò in Israele dall'Unione Sovietica, a Mosca, nel 1990, quando aveva 17 anni. Il suo nome in russo era Yula. Suo padre era un insegnante di spagnolo ed era il traduttore personale di Fidel Castro in russo.
Quando giunse in Israele da brava ginnasta russa cominciò a cercare qualcosa con cui mettersi alla prova. Sperimentò lo yoga, se ne appassionò fino a coinvolgere anche Avraham Kolberg, il futuro marito conosciuto in un bar di Tel Aviv. Lui aveva già sperimentato con soddisfazione la meditazione orientale, spinto da un commilitone durante il servizio militare. «Avevamo frequentato entrambi il Beit Berl School of Arts – ricordava Rachel – lui come fotografo, io come pittrice e all’epoca non eravamo religiosi”.
Nel 2000, sposati e con un figlio di 3 anni, andarono in India per studiare il metodo Iyengar e ad approfondire l’unione di mente, corpo e spirito a Dehradun, la capitale dello stato dell’Uttarakhand vicino all’Himalaya.
«Non eravamo i classici saccopelisti diretti a Goa. Tutt’altro».
Seguirono un training di qualche mese, con sveglia all’alba e molte ore di pratica, dove per entrare in contatto con la propria spiritualità gli si richiedeva uno stile di vita morigerato, a cominciare da vestiti comodi non troppo attillati e pochi contatti con l’altro sesso.
Verso la Pasqua di quell'anno si sentirono isolati e decisero di recarsi nella vicina Rishikesh e trovare gli israeliani con cui festeggiare la festa. Raccontarono:"È stato allegro, un sacco di cibo, stare insieme. All'improvviso abbiamo ricevuto una risposta alle domande che ci eravamo posti".
Dopo la Pasqua iniziarono ad osservare il Sabbath. A quel tempo Rachel era incinta del loro secondo figlio e iniziarono a pensare di tornare in Israele. Non più a Tel Aviv, che dopo la tranquillità di Dehradun era per loro un caos invivibile, bensì nella più tranquilla e religiosissima Beit Shemesh. Pian piano cominciarono a festeggiare lo shabbath e a frequentare una scuola di testi sacri ebraici.
«Abbiamo iniziato in una piccola stanza al secondo piano di casa nostra. Capienza, cinque persone in tutto», raccontava Rachel, «Poi abbiamo spostato una parete e ampliato lo studio fino a ospitare dodici studenti per classe. Ringraziando Dio ora stiamo costruendo un grande centro, dove si potranno seguire le lezioni di yoga e i corsi di formazione per insegnanti, far giocare i bambini e usufruire di trattamenti di medicina alternativa».
I Kolberg oggi insegnano lo yoga ai residenti ultraortodossi di Ramat Beit Shemesh, dove la pratica è ampiamente considerata tabù.
I due insegnanti considerano il cambiamento dell'atteggiamento verso lo yoga nel mondo ultra-ortodosso come loro missione.
Se per i rabbini della comunità lo Yoga è l'adorazione degli idoli, per Avraham Kolberg lo yoga è invece un modo per adorare Dio.
Il fatto che i Kolberg siano essi stessi membri strettamente osservanti della setta hasssa Breslav e il fatto che uomini e donne vengano insegnati separatamente non ha ammorbidito l'opposizione allo yoga in questo quartiere Haredi di Beit Shemesh.
Racconta ancora Rachel "Lo yoga dà a queste donne l'opportunità di incontrarsi con se stesse", dice. "Considero questo come una sorta di ritorno (nel senso di un ritorno alla religione) .Queste donne sperimentano un ritorno a se stesse e quindi possono esaminare se amano, se stanno facendo le cose che amano e se amano il posto dove sono”.
Avraham Kolberg riferisce che ci sono delle istruzioni che gli Hasidi hanno difficoltà a seguire, in parte perché non conoscono i nomi di alcune delle loro parti del corpo, non sanno come alzare le braccia e insistono per mantenere il loro tzitzis (maglietta con frange) e a non indossare vestiti sportivi.
Per fare un esempio dice Rachel: “C’è voluto un grande lavoro per convincere la popolazione chassidica che la posizione dell’“aratro” (halasana) non avrebbe interferito con la religione ebraica è bastato aspettare”.
"Quando mio figlio si siede nella posizione del loto nelle sue lezioni di Gemara alla yeshiva, gli urlano che si comporta come un gentile, perché, se questo lo aiuta a concentrarsi? Questo è uno strumento che si rifiutano di usare".
A lezione i Kolberg evitano di intonare mantra in sanscrito («quando usiamo termini in questa lingua è per evitare di ripetere lo stesso concetto in inglese ed ebraico) o fare meditazione orientale («anche se alcune asana sono una forma di meditazione»). Ma a parte qualche accortezza sono convinti, come ha specificato Avraham al quotidiano israeliano Haaretz che «la filosofia dello yoga è davvero universale. Quando Patañjali, padre dello yoga moderno, dice di credere in Dio non dice in quale. Non solo, per me lo yoga è un modo di adorare Dio. E non c’è possibilità di fare un lavoro spirituale se non attraverso la conoscenza del proprio corpo».
Ma Rachel e Avraham non disperano: «yoga e preghiera – dicono – sono le armi per vincere l’unica guerra che riteniamo accettabile, quella che ogni persona può fare per andare oltre i propri limiti»
Per capire infatti l’eccezionalità dell’impresa dei Kolberg, osservanti della setta chassidica Breslav, bisogna conoscere il contesto, in cui come racconta Rachel «gli uomini lavorano sodo e passano molte ore a studiare i testi sacri o Torah, le donne danno il loro meglio per crescere famiglie numerose e i bambini crescono senza tv, smartphone, videogiochi o aggeggi vari che inquinano il cervello».
Un quartiere in cui uomini e donne viaggiano in autobus separati, e sulle scritte spray sui muri si legge “se vuoi state qui devi indossare un abbigliamento modesto”. Un posto dove il cellulare di sabato, giorno dedicato al Signore e al ritiro dalle attività quotidiane, si paga due dollari e 50 al minuto rispetto ai 2 centesimi verso altri telefoni kosher nel resto della settimana. A sintetizzare l’utilizzo della tecnologia nel rispetto dell’integrità religiosa. Gli ebrei ultraortodossi chiamati anche haredim (in ebraico “coloro che tremano davanti alla parola di Dio”) rappresentano la corrente integralista che vorrebbe che tutti gli israeliani seguissero le leggi delle Scritture emanate da Mosè sul monte Sinai nell’anno 2448 del calendario ebraico. Di fatto non partecipano ai censimenti, sono esentati dal prestare il servizio militare, obbligatorio per gli altri giovani israeliani. Sono oltre un milione su una popolazione di sette milioni di abitanti, hanno una media di circa 6-7 figli a famiglia e più del 50 per cento di loro, preferendo gli uomini concentrarsi sugli studi religiosi, vive al di sotto della soglia di povertà, spesso grazie a sussidi rabbinici.
Non stupisce quindi che, nonostante i Kolberg rispettino i dettami religiosi della loro comunità, «inizialmente i vicini ci guardassero come marziani», come racconta lei; del resto lo yoga, con le sue connessioni all’Induismo, per la gente del posto era (e per certi versi lo è ancora) considerato tabù, una sorta di idolatria, come venerare divinità diverse dal Dio d’Israele.
Un mezzo miracolo che la dice lunga sul senso di missione di questi due insegnanti che dopo aver imparato la tecnica in India sono tornati nel loro paese abbracciandone le tradizioni più estreme, o solo più spirituali.
I Kolberg non sono i soli a conciliare i benefici psicofisici dello yoga con l’ebraismo, anche se la loro storia (e soprattutto le immagini dei loro studenti a testa in giù in lunghi pastrani neri) ha richiamato l’attenzione dei media internazionali. Esistono infatti scuole di yoga per ebrei osservanti da più di 20 anni in Gran Bretagna, Australia, Canada e Usa, dove c’è un centro per insegnanti kosher. A Melbourne poi il rabbino e psicologo Wolf Laibl ha creato il Mind Yoga, in cui la mistica kabbalistica si mischia con la spiritualità yogica. Perché la dimensione meditativa della preghiera ebraica è sempre esistita come conferma il rabbino newyorkese Aryeh Kaplan che sull’argomento ha scritto anche un libro tradotto in italiano “La meditazione ebraica” (Giuntina).