IL POPOLO CURDO, DA TRIBALISMO A NAZIONALISMO
Il caso dei Curdi, certamente non il solo, rivela molto sugli aspetti legati all’identità. Con l’ eccezione del filosofo del XVII secolo, Ahmad-i Khani, non vi è prova di un pensiero curdo in termini di intero popolo curdo fino alla fine del 1800. Il consenso quasi completo tra gli studiosi è che il popolo curdo rappresenti un gruppo identificabile da forse due millenni. Altrettanto chiaro è che è solo da poco più di un secolo (come nel caso di Arabi e Turchi) ha acquisito un senso etnico dell’identità, sostituendolo all’idea di cittadinanza ottomana e/o di appartenenza a una comunità religiosa.
Le ‘domande’ relative all’identità sono diventate sempre più comuni durante la prima guerra mondiale e le successive conferenze per la pace. Un numero crescente di persone, la «maggior parte degli arabi istruiti», percepiva «le nazioni britanniche e francesi [come] i loro migliori amici» e «i turchi e i tedeschi [come] i loro più grandi nemici». Questa storica congiuntura segna il momento in cui anche i Curdi «hanno iniziato a pensare e agire come una comunità etnica», in coincidenza con il periodo in cui il problema curdo emergeva per la prima volta alla visibilità internazionale.
A quel tempo, la politica britannica in relazione ai Curdi era spesso incoerente, tendenzialmente simpatizzava con il nazionalismo e l’autonomia, opponendosi a qualsiasi forma di indipendenza. Alla fine i politici britannici conclusero che il modo migliore per sfruttare i giacimenti petroliferi di Mosul e Kirkuk fosse creare un singolo stato, il Regno dell’Iraq, includente aree popolate da Curdi. Secondo l’allora commissario britannico a Baghdād, Percy Cox, onde facilitare i negoziati sulle frontiere si doveva assicurare alla Turchia l’abbandono dii ogni proposito di autonomia curda, inclusa nel trattato di Sèvres sostituendolo con l’obiettivo di incorporare in Iraq tutte le aree curde che, fissate le frontiere, venissero a trovarsi dal lato di Mosul.
Da notare: nei mesi precedenti, quando alcuni imperialisti europei a Sévres stavano tentando di creare uno stato indipendente curdo, un certo numero di Curdi combatteva al fianco del governo nazionalista turco di Kemal Atatürk, il quale, a fine trattativa, il 24 luglio 1923, respinse il trattato. Così, l’idea di stabilire uno stato nazionale curdo venne definitivamente abbandonata e nel trattato di Losanna, che sostituì quello di Sèvres ponendo ufficialmente fine al conflitto, la parola Curdi non era neppure menzionata.
Fu solo dopo la fine della guerra che, grazie anche a nuove influenti organizzazioni come la Società per la crescita del Kurdistan, emersero il pensiero ed il movimento etno-nazionalista curdo in maniera più definita e strutturata. Questo giocò un ruolo cruciale nel plasmare una distinta identità curda fortemente influenzata da opere di importanti figure religiose e politiche, molte delle quali educate in Occidente o in scuole occidentalizzate.
Nell’irredentismo curdo attuale, Barzani e Öcalan rappresentano volti antitetici: il primo ne incarna la natura più conservatrice e legata a costumi di natura tribale, mentre Ocalan ne è probabilmente la manifestazione più radicale e al contempo distante dal nazionalismo comunemente inteso. La struttura tribale e feudale della società curda fu, sul finire dell’Ottocento, un elemento centrale nell’emergere del movimento etno-nazionalista, tanto che, a cavallo tra i due secoli successivi, quel movimento è andato mutando di forma e contenuti a seconda del grado di adesione o di rigetto nei confronti di tale assetto sociale.
Mas’ud Barzani discende da una delle più antiche e influenti tribù curde: furono i suoi avi a guidare alcuni tra i primissimi moti indipendentisti nella regione. Nel 1912, inorridito dal nuovo regime “ateo” inaugurato dai Giovani turchi, al quale si rifiutava di pagare le tasse, lo shaykh Abd al-Salam Barzani guidò una sollevazione di popolo contro le forze governative nella provincia di Mosul, infliggendo loro pesanti perdite prima di venire impiccato.
Più che leader nazionalisti, gli shaykh erano guide religiose: all’interno delle comunità curde la loro influenza era andata crescendo per via delle politiche di centralizzazione poste in essere dall’impero ottomano, che agli inizi del diciannovesimo secolo aveva esautorato i vecchi capi tribali (agha), privandoli di importanti mansioni amministrative e di controllo del territorio. Gli agha, in altre parole, chiedevano indietro la loro autonomia e il loro potere feudale; ma non possedevano una capacità di mobilitazione pari a quella degli shaykh, ai quali quelle comunità, fortemente devote all’Islam delle confraternite Sufi, attribuivano poteri quasi sovrannaturali. L’avversione nei confronti del nascente secolarismo e dell’autorità centrale rappresentarono il motore delle prime insurrezioni curde: nel 1919, quanto accaduto a Mosul si sarebbe ripetuto a Sulaymaniyah, con la chiamata al jihad contro i britannici; e in seguito nella Turchia kemalista, dove lo sheikh Said di Dicle reclutò ventimila contadini perché lottassero per la restaurazione del Califfato.
Per come siamo avvezzi a intenderlo oggi, in effetti, il nazionalismo curdo iniziò a prender forma a Mahabad, una cittadina di 15mila abitanti sul bordo occidentale del Kurdistan iraniano. Sul finire degli anni Trenta, il baricentro del movimento irredentista si era andato spostando tra la nascente classe media urbana: a sognare l’indipendenza, ora, erano gruppi di insegnanti, funzionari pubblici, studenti. Sotto il crescente influsso del socialismo, questi uomini iniziarono presto a sviluppare una coscienza di classe: nel luglio del ’43, un editoriale apparso sul primo numero di Nishtman (Madrepatria), un periodico in lingua curda stampato nella città di Tabriz, criticava l’egoismo feudale degli agha. “Il vostro capitale – si leggeva – accumulato col denaro che i nemici del popolo vi elargiscono a piene mani, ritarda la liberazione dei curdi e crea intrighi dannosi per tutti noi”.
Nishtman era l’organo ufficiale della ‘Società per la rinascita del Kurdistan’ (Komala-i Jiyanawi Kurdistan), un movimento clandestino nato a Mahabad durante l’occupazione anglo-sovietica del ‘41. Nel 1945, sotto la guida illuminata di Qazi Muhammad, un religioso locale che godeva di grande rispetto nella regione, il gruppo fondò il Partito democratico del Kurdistan (PdK): l’anno seguente, approfittando del momentaneo appoggio sovietico, il PdK proclamò la Repubblica di Mahabad e con essa il primo esperimento di autogoverno dei curdi. L’intera architettura del moderno nazionalismo curdo fu disegnata in quei giorni: un nuovo programma scolastico, dagli standard decisamente avanzati per l’epoca, fu varato in lingua curda; le donne iniziarono a partecipare attivamente alla vita sociale e politica e le terre che lo Scià aveva confiscato ai capi tribali vennero “nazionalizzate” e ridistribuite.
Mustafa Barzani arrivò in città nel ’45, per sfuggire alla persecuzione del Regno d’Iraq: Qazi Muhammad lo pose ai vertici della milizia tribale che, dai villaggi circostanti, proteggeva la città. Barzani è forse il miglior esempio della dicotomia tra tribalismo e moderno nazionalismo che si andò delineando a Mahabad: quando l’esercito iraniano riconquistò la città, gli altri capi tribali ne disconobbero l’autorità, vanificandone i tentativi di resistenza. Tornato in Iraq nel ’51, dopo un periodo d’esilio in Russia, il leader avrebbe portato con sé tanto la denominazione del PdK quanto quella tensione duale: nel 1975, in aspra opposizione alla sua gestione, da molti ritenuta eccessivamente feudalista, l’Unione patriottica del Kurdistan si scisse da una costola del PdK. Quindici anni più tardi, prima di dividere la regione in due distinte zone d’influenza, i due gruppi furono ai lati opposti di una guerra civile curda che, tra Erbil e Sulaymaniyah, avrebbe provocato oltre quattromila vittime.
Ma è nella figura di Abdullah Öcalan che la frattura tra identità tribale e moderno nazionalismo si sarebbe compiuta. Öcalan è stato il primo leader irredentista curdo a non discendere da una influente tribù della regione. I suoi genitori erano contadini in un villaggio nel distretto di Mardin. Pur avendone inizialmente minato la credibilità, l’assenza di un lignaggio “nobile” sarebbe infine divenuta parte della sua mitologia. Öcalan designò il suo bacino di reclutamento tra operai e studenti universitari: si trattava, molto spesso, dei giovani che più di tutti avevano patito la marginalizzazione che, nella Turchia repubblicana, era riservata ai curdi. “A scuola ci educavano a vergognarci delle nostre origini” avrebbe detto decenni più tardi Kemal Aktaş, un ex parlamentare che ha trascorso metà della sua vita nel carcere militare di Diyarbakir per aver aderito al primissimo nucleo del Pkk. “E molti di noi si lasciavano condizionare perché, oltre che curdi, eravamo estremamente poveri. Ma gli uomini di Öcalan ci insegnarono ad andar fieri di ciò che eravamo”.
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Nel novembre del ’78, in un casale nel remoto villaggio di Fis, Abdullah Öcalan e altri cinque studenti, da poco entrati in clandestinità, fondarono il Partito dei lavoratori del Kurdistan, un’organizzazione d’ispirazione marxista che si riprometteva di espellere in armi ogni rappresentante dello stato “coloniale” turco. Significativamente, il primo bersaglio del gruppo fu scelto all’interno della società curda: Mehmet Celal Bucak era il capo feudale dell’omonima tribù, oltre a sedere in parlamento col Partito per la giustizia, in quegli anni al governo con gli ultranazionalisti turchi del Mhp. Secondo Aliza Marcus – che nel 2004 ha pubblicato una storia del Pkk, intervistandone gli ex miliziani – Bucak era noto per la crudeltà con cui trattava i contadini nelle sue terre: nel luglio del ’79, un commando del Pkk gli tese un’imboscata, ferendolo gravemente. L’azione ebbe grande eco nella società rurale curda: secondo Marcus, la crescente brutalità con cui Öcalan condusse la sua lotta finì per esercitare un’enorme attrattiva tra i lavoratori del sud-est, reduci da 40 anni d’emarginazione. Al culmine del suo potere, il Pkk contava 15mila guerriglieri tra le sue fila, oltre ad altri 50mila “riservisti” armati sparsi tra i centri urbani del sud-est, i cosiddetti milis.
Nel 2008, influenzato dagli scritti del politologo irlandese Benedict Anderson, Öcalan, che dal ’99 sconta l’ergastolo in isolamento, ha operato una revisione critica delle sue precedenti posizioni. Curiosamente, il “confederalismo democratico” da lui teorizzato ricorda vagamente il sistema ottomano dei millet, le comunità etniche e confessionali che garantivano quell’autonomia amministrativa di cui anche le tribù curde avevano goduto: a venir meno è, in questo senso, l’articolazione feudale del potere, detenuto da assemblee di cittadini più che da capi tribali.
La nascita, nel 2012, di un embrione di stato curdo nella regione siriana del Rojava – governato secondo i principi enunciati da Ocalan – ha causato forti tensioni tra i curdi siriani e quelli iracheni, questi ultimi guidati dal governo di Barzani. Tali tensioni sono sfociate, nel 2015, nella chiusura del valico di Semelka, che divide le due entità territoriali. Come una moneta a due facce, oggi, quel confine demarca il limite tra due volti della stessa causa irredentista.
Si può notare come una visione nazionalistica sia oggi l’unica che rintracciamo nei resoconti mediatici delle vicende attuali. Sì assume la piccola entità siriana di Rojava come essenza della “curdità” e la “ragazza con il fucile” ne è l’icona, perché guerre d’indipendenza e parità di genere sono apparenze che l’Occidente comprende.