MEDITAZIONE E DIPENDENZE
Il processo di recupero dalle dipendenze così come lo intende la psicoterapia è presente anche nella concezione religiosa occidentale, proprio come illustrato da Dante nella Divina Commedia descrivendo dapprima la discesa nell’inferno, poi l’impegnativa e dolorosa ascesa verso il purgatorio, dove la persona subisce un processo di trasformazione per arrivare alla trascendenza assoluta nei mondi spirituali, o paradiso.
Nella psicoterapia questo cammino inizia quando “si tocca il fondo”, accettando il peggio di sé, valutando le proprie forze, ma soprattutto le debolezze, aggiustando le relazioni deteriorate e rientrando, infine, in una nuova consapevolezza, che nella dimensione spirituale diventa quella del sé individuale che si unisce con il Sé superiore.
Spesso le persone che hanno dipendenze nella loro ricerca di cambiamento, cominciano a desiderare l’esperienza “particolare”, uno stato di consapevolezza diverso, che li aiuti a superare l’oggetto materiale da cui dipendono e dove per altro l’assunzione e la ripetizione ritualistica di un comportamento è evidente.
Nelle tradizioni religiose di stampo orientale in cui rientrano anche alcune correnti meditative e contemplative del cristianesimo e dell’esoterismo islamico (Tasawwuf), gli stati meditativi sono considerati un antidoto al desiderio e all’attaccamento, ma anche, e soprattutto, la meditazione è fare esperienza del Sé superiore.
Tali esperienze trascendentali e di espansione di consapevolezza del sé individuale nel Sé superiore, possono modificare profondamente il carattere e le percezioni umane, se pur in modo molto diverso da persona a persona: l’intera gamma dell’esperienza, il continuum della sensazione e della percezione, diventa estesa e più fluida.
Le scuole sopracitate mettono tuttavia in guardia dal pericolo di una pratica o meditazione compulsiva all’interno della quale i cosiddetti “meditatori compulsivi” usano la ricerca dell’esperienza spirituale per sottrarsi alle circostanze spiacevoli del mondo esterno o interno.
I maestri delle tradizioni spirituali asiatiche parlano della possibilità di dipendenza spirituale o di “materialismo spirituale”, mettendo in guardia contro l’attaccamento a esperienze insolite, estatiche o visionarie che vengono sminuite come “maya” (illusione).
Quando le dipendenze, le compulsioni e gli attaccamenti implicano la fissazione dell’attenzione e il restringimento del numero degli oggetti della percezione, possiamo parlare di uno stato contratto di consapevolezza.
Le esperienze estatiche o trascendentali implicano, invece, un allargamento del centro di attenzione, un’espansione della consapevolezza oltre i limiti dello stato ordinario o di base. Per cui, tali esperienze implicano l’opposto delle contrazioni dipendenti della consapevolezza. La consapevolezza e l’attenzione, anziché essere fissate e ristrette, sono allargate ed espanse. È un processo di distacco piuttosto che di attaccamento, di dissoluzione o allentamento anziché di fissazione.
Nelle tradizioni spirituali asiatiche, inclusi yoga, vedanta e alcune scuole buddiste, l’«attaccamento», la brama e il desiderio vengono considerati processi basilari della consapevolezza umana, oltre che gli ostacoli principali alla “liberazione”, l’«illuminazione» o “auto-realizzazione”. “La fonte della sofferenza è il desiderio”, recita la seconda della Quattro Nobili Verità del Buddha, dopo la prima, che sostiene l’universalità e l’ineluttabilità della sofferenza.
L’attaccamento, o il processo di dipendenza, può allora implicare un’alterazione immediata o molto rapida del carattere e della percezione. In questa alterazione, sono incluse la soddisfazione del bisogno e la riduzione dell’ansia.
Nelle meditazione su una immagine sacra, per esempio, portiamo la consapevolezza e l’attenzione sull’oggetto che bramiamo o desideriamo, tralasciando così altri aspetti della nostra vita come dolore, paura o ansia. Il centro dell’attenzione si restringe. Nel tempo questi passi vengono ripetuti e gradualmente si può creare una sorta di rituale.
Nel modello asiatico (sia induista che buddista), l’accento viene posto maggiormente sul distacco progressivo attraverso la meditazione. Nella ruota del samsara, in ognuno dei sei mondi c’è una figura di Buddha che insegna la via per trascendere o raggiungere la liberazione da quel mondo. In qualunque dimensione ci troviamo, attraverso la pratica spirituale, possiamo trascendere le false dualità e i conflitti, raggiungendo la comprensione e la liberazione dalla ruota delle nascite e delle morti.
Alcune pratiche di meditazione mirano chiaramente a produrre uno stato unificativo di consapevolezza, nel quale i conflitti e i dualismi della consapevolezza ordinaria vengono dissolti o trascesi. Osservando meglio questo processo di trascendenza è molto complesso:
Esiste infatti una trascendenza autentica e una sorta di pseudo-trascendenza, o dissociazione, che potremmo chiamare “cambiamento di canale”. Se l’attenzione è diretta verso un oggetto o un evento nel mondo esterno o interno, questa situazione è paragonabile al vedere un programma alla TV. Per rendere più convincente l’analogia, immaginiamo di avere un mini schermo TV fissato ai nostri occhi, che ci impedisce di vedere altro. Quindi, il centro o la fissazione dell’attenzione e della percezione sono le immagini che ci vengono offerte. Potremmo definire tutto ciò la “modalità attaccamento” della percezione.
“Cambiare canale” è una forma di trascendenza, nel senso che non stai più guardando il programma precedente. Se sei depresso e in qualche modo riesci a “cambiare canale”, sei andato al di là della depressione.
Ma il “cambiamento di canale” è probabilmente un’analogia inappropriata per descrivere la dipendenza spirituale, o la pratica compulsiva della meditazione. L’analogia appropriata per la trascendenza autentica, per l’espansione di consapevolezza, è che si continuano a guardare le immagini alla TV, ma allo stesso tempo si fa un passo indietro, oppure si allontana lo schermo dal viso, rendendo possibile la visione di tutto ciò che c’è nella stanza e, attraverso la finestra, fuori dalla casa. È ancora possibile guardare le immagini della TV, ma stavolta si comprende che è solo una TV, con questo o quel programma, mentre dentro e intorno a te stanno avvenendo molte altre cose. Lo stato trascendentale include la forma precedente, più limitata di attenzione, e si spinge oltre. Adesso hai il quadro generale, per così dire: sai che là fuori c’è tutto un mondo, e che puoi scegliere dove dirigere la tua consapevolezza.
La meditazione dell’attenzione (“vipassana”) può produrre la vera trascendenza, perché in essa non cerchi di concentrarti su qualche oggetto o soggetto. Semplicemente, osservi e prendi nota del flusso continuo di sensazioni, sentimenti e pensieri. Tutto ciò che emerge, lo osservi. Non fai altro che prenderne nota. Non te ne allontani, non cerchi di abbandonarlo, non provi a concentrarti su qualcos’altro. Inoltre, non lo analizzi né lo interpreti, come faresti in psicoterapia. Lasci semplicemente che arrivi e scompaia. I pensieri vanno e vengono. Tutti gli aspetti dell’esperienza sono inclusi: niente è lasciato fuori. Ecco perché la meditazione dell’attenzione produce una trascendenza graduale, un distacco e una disidentificazione lenti e progressivi, che può includere i contenuti precedenti della consapevolezza, così come gli elementi di un tutto più vasto.
La trascendenza è uno stato alterato di consapevolezza che è sempre temporaneo; qui troviamo tutte le esperienze mistiche, le espansioni di consapevolezza e le estasi. Le trasformazioni sono mutamenti duraturi nella struttura e nella funzione della consapevolezza; ovvero, della mente, delle emozioni, delle percezioni, dell’identità, dell’immagine di sé e così via. Puoi spostare il centro della consapevolezza, o anche espandere quest’ultima, ma la forma-base della consapevolezza resta la stessa. Per alcuni psicoterapeuti con impostazioni spirituali, provocare trasformazioni nelle strutture basilari della personalità può richiedere un lavoro psicoterapeutico o di sistema, cioè addentrarsi nei livelli più profondi del sistema corpo-mente e disfare letteralmente i samskara, i modelli karmici che ti hanno fatto assumere quel tipo di comportamento.
William James, nel suo Le varie forme dell’esperienza religiosa (1902), ha posto il problema di questa distinzione nel modo seguente: egli si è domandato se un’«esperienza di conversione» (come lui definiva l’esperienza trascendentale) avrebbe portato inevitabilmente alla “santità”, cioè a un comportamento migliore, più morale e umano. La sua risposta è stata: non necessariamente. Molto dipende da ciò che la personalità era prima dell’esperienza e se i mutamenti nel comportamento e nello stile di vita sono stati appropriati. Per qualcuno che stia già facendo, più o meno, il lavoro della sua vita, un’esperienza mistica o estatica può solo essere una conferma del cammino, senza provocare un cambiamento radicale nella sua vita.
Tutte le tradizioni spirituali del mondo riconoscono esperienze di trascendenza di qualche tipo e si ritiene che molte pratiche spirituali provochino stati di consapevolezza più elevati, come la chiaroveggenza, la precognizione e la telepatia. Nello yoga questi si chiamano “siddhi” (poteri), ma tutte le tradizioni tendono a mettere in guardia contro la ricerca o il desiderio eccessivo di essi. Le tradizioni avvertono: non essere troppo avido di queste visioni, esse non sono altro che illusioni e possono distrarti. E’ possibile, infatti, perdersi nelle esperienze trascendentali e finire col fare meditazione solo per ottenere in continuazione queste esperienze. Per questo gli insegnanti tradizionali dicono spesso: “Continua ad andare avanti, fino alla liberazione totale, all’autorealizzazione o all’illuminazione, che è al di là di tutte le visioni o esperienze dualiste”.
Anche lo sciamanesimo, da molti considerato la religione e la pratica di guarigione più antica di questa Terra, prevede esperienze estatiche o trascendentali. Alcune di queste pratiche implicano l’uso di allucinogeni, di piante capaci di produrre visioni, mentre altre usano tecniche per indurre trance, come i tamburi, il movimento, il digiuno, l’isolamento, le ordalie, la ricerca di visioni, il canto e molte altre. Tutte queste tecniche possono essere oggetto di una ricerca compulsiva quando conducono a fissazioni e contrazioni della consapevolezza. Le tradizioni mettono in guardia contro queste tendenze.
Poiché potenzialmente tutti siamo dipendenti e abbiamo tendenze alla compulsione, dobbiamo imparare a equilibrare la soddisfazione dei bisogni genuini con le pratiche spirituali della vera trascendenza o dell’espansione di consapevolezza. Dobbiamo imparare a focalizzare consapevolmente la nostra attenzione quando ciò è necessario, e a espanderla quando ciò è indicato. Questo è un altro modo di definire l’antica virtù dell’equilibrio.