RAFIULLAH FAVERO, IL BATTERISTA CHE LASCIO I "PROFETI" PER "IL PROFETA"
La band dei “Profeti” si costituisce a Milano nel 1964. Durante la registrazione del primo album nel 1966 avviene l’ingresso di Raffaele Favero.
Di tale album si segnalano inediti come Asciuga le tue lacrime (brano di Battisti), Per fare un uomo di Francesco Guccini ed una cover di The Bells of Rhymney di Pete Seeger (con un arrangiamento simile a quello realizzato dai Byrds).
Anche nel look i musicisti della band cercano di trovare una strada originale e sulla copertina dell'album si fanno fotografare vestiti con tuniche orientali e caffettani. Vi è nell'album anche una ricerca sulle sonorità, con l'uso di strumenti esotici come il sitar o la proposta di alcuni brani strumentali come Sunny o Fa fa fa fa.
Dopo la pubblicazione dell'album Favero abbandona il complesso (si trasferirà in Pakistan aprendo la comune transculturale di Tatti Nasrati e poi in Afghanistan, diventando musulmano grazie all’incontro con un maestro sufi e prendendo il nome di Raffiullah Khan).
Grazie all’ intenso scambio epistolare con la famiglia iniziato nell’ottobre del 1967 e pubblicato nel libro ” Via da Milano, tra i mujaheddin” possiamo seguire l’avventura di Favero dalla Turchia, all’Iran, al Pakistan, India, Nepal, Afghanistan ed anche Australia, dove vivrà per alcuni anni con la moglie Jill insieme ai tre figli che nasceranno dopo il loro matrimonio.
Raffaele scrive ai genitori: "Voi lo sapete perché sono partito, per un qualcosa che si chiama cammino verso l'idea, l'illuminazione, intelligenza di tutte le cose, dio, soprattutto amore, poesia, filosofia”.
Patrizia Favero, la sorella, in un’intervista al Corriere della Sera (2018) racconta:
«Raffaele era un irrequieto, vittima della sindrome di Ulisse, la stessa che nel 1911, a 7 anni, spinse il fratello gemello di mio padre a fuggire da Mathi, nel Canavese, per andare a caccia di leoni. Lo acciuffarono nel porto di Genova, imbarcato da clandestino su una nave diretta in Africa» (…) “Fin da bambino non è mai stato sereno, nel suo sguardo scorgevi sempre un altrove. Ricordo che rubò a mia madre i soldi per comprarsi un proiettore 8 millimetri. Ci fece credere d’averlo vinto a una lotteria. Mamma si accorse dell’ammanco e lo riempì di botte. Da adolescente lo aspettava dietro la porta con il battipanni perché rincasava alle 3 di notte. Era sempre in giro per festini. Conobbe, non so come, la scrittrice Fernanda Pivano e l’attore Glauco Mauri. Poi prese a frequentare strani giri. Cominciò a fumare l’hashish. In seguito passò all’oppio. Lo faceva vomitare però gli regalava l’oblio. Una volta mi confessò: “Nella vita voglio fare tutte le esperienze, esclusi i rapporti omosessuali”». Raffaele cercava (prosegue Patrizia): «Qualcosa per cui valesse la pena di vivere. Papà fu bravo: non lo ostacolò, lo lasciò libero. Là Raffaele imparò il pashto e l’urdu. Conobbe Sayedmir Sainbaba, un santone pakistano formatosi in Inghilterra, che gli curò un’epatite virale e gli parlò di Allah. Mio padre fu contento che suo figlio avesse incontrato Dio, anche se la visse come una perdita definitiva. In ufficio i colleghi lo vedevano piangere. Poi una mattina ricevette una lettera da Sainbaba. Finiva con queste parole: “Oh oh oh, I am dying”, sto morendo, e gli raccomandava di amare Rafiullah, perché era un bravo ragazzo, incamminato su una buona strada».
Suo padre come racconta la sorella “.. tutte le sere, al momento di andare a letto, gli faceva recitare con me la preghiera all’angelo custode. A 16 anni lo mandava all’oratorio nella parrocchia del Corpus Domini, in via Canova. Ma si vede che su di lui fece più presa Allah”.
I suoi spostamenti in Oriente sono continui dal 1971 al 1974, trovandosi prima nel mezzo del conflitto indiano - pakistano a condividere le sorti di quest'ultimo Paese, poi sceglie l'Afghanistan come sua patria d'elezione. Ed è proprio qui che nel 1973 che incontra Jill Hutchings, un'australiana in viaggio in Oriente, che condivide con lui interessi e aspirazioni.
Nel 1973 continua Patrizia: “Andai a trovare Raffaele nella valle dello Swat. Ci arrivai in Mini Minor con una coppia di amici. Il mio fidanzato non poté venire a causa dell’obbligo di leva. Partimmo il 10 agosto e tornammo a ottobre. Quando vidi come viveva mio fratello, piansi per un giorno» (..) «Abitava a Bannu, in una tenda, allevando tre cavalli waziri scheletriti e coltivando la terra con il suo amico Billawar Khan, al quale avrebbe voluto darmi in sposa».
Nel 1979 mentre è in Australia viene a sapere dell'invasione sovietica in Afghanistan, dove si reca tre volte per fare servizi fotografici e documentari per la televisione australiana e italiana. Decide allora di recarsi in Afghanistan sostenendo che “Questa è la guerra santa di tutti”.
Lascia per sempre Jill a Maryborough, 170 chilometri da Melbourne, con i tre figli da crescere, Adam, 7 anni, Jana, 5, e Rhea, 3.
Patrizia Favero parla dell’avvicinamento di suo fratello ai mujaheddin: «L’ho capito solo quando sono stata nella sua casa in Australia, per un funerale senza la salma. In camera, sul comodino, ho trovato il libro “Morire per Kabul” di Lucio Lami, nel quale l’inviato di guerra del Giornale di Montanelli auspicava l’arrivo di un cronista coraggioso che raccontasse i massacri compiuti dai sovietici. Accanto a quella frase, Raffaele aveva annotato a matita: “Rafiullah”. Per questo partì e strinse amicizia con Ahmad Massoud, il Leone del Panshir».
Rafiullah porta il kalashnikov a tracolla e la sorella racconta perché: “Tutti i musulmani impegnati contro gli usurpatori lo avevano. Ma la sua unica arma era la cinepresa super 8. Con quella filmò i bimbi afgani sfigurati dalle mine a farfalla dei russi e gli elicotteri rivestiti di titanio, con puntatori laser, mandati da Mosca a scaricare razzi a guida termica sui partigiani in sandali. Raffaele trasmetteva da Zurmat il notiziario nazionale dei mujaheddin. Grazie a lui Mino Damato, inviato della Rai, fu il primo al mondo a fare una diretta via satellite dalle zone di guerra”. “Mio fratello ha dato la sua vita, non l’ha tolta a nessuno. È andato volontariamente incontro alla morte per difendere la libertà degli afgani. Ci è stato riferito che Raffaele, la mattina in cui restò ucciso, aveva detto: “Se questo è il mio destino, lo accetto”.
Rafiullah muore a Urgun nel 1983 sotto un carro armato guidato da un dissidente afgano che combatteva a fianco dei sovietici. Spiega bene Patrizia Favero: “Non restò vittima di un bombardamento. Fu stritolato da un carro armato che i mujaheddin avevano strappato ai russi. Alla guida vi era un disertore dell’Armata rossa, che venne immediatamente giustiziato dagli afgani. Non s’è mai capito se fu un incidente o un investimento volontario. Raffaele aveva spiegato a un amico: “Voglio filmare un carro armato in movimento, in modo che agli spettatori sembri che stia per passare sopra di loro”. Invece passò su di lui, schiacciandolo completamente dal ventre ai piedi. Morì dissanguato dopo 20 minuti. La sua unica preoccupazione fu di lanciare lontano la cinepresa, perché le immagini non andassero perdute. Si sente un urlo e poi si vede una scena indistinta».
Dopo la sua morte lo inumano nella nuda terra, senza bara, secondo il rito islamico. Il mullah e combattente Jalaluddin Haqqani (che nel 1996 si sarebbe alleato con i talebani e successivamente appoggiò Al Qaeda) lo proclama shahid, martire della guerra santa. Durante l’orazione funebre queste sono le sue parole: “Credetemi, migliaia di persone sono diventate shahid, ma io non ho mai provato il dolore che provo ora”. Eppure Raffaele non aveva mai sparato un colpo».
Nel dicembre 1983 la moglie prova a recarsi sulla tomba di Rafiullah portandosi appresso i bambini. Tinge di nero i loro capelli biondi, lo stesso colore di quelli di Raffaele nel 1972 quando Jill lo vide per la prima volta sul tetto di un pullman in Pakistan. Tiene nascosta la più piccola, Rhea, sotto il burqa. Ma non riesce ad arrivare a Urgun.
L’epistolario pubblicato nel 2006 da Terre di mezzo Editore vince il Premio Pieve nel 2005 e la giuria nazionale da questa motivazione: “Attratto dall’islamismo, Favero è diventato amico dei mujahedin afghani dimostrando come la questione dell’incontro tra le religioni sia possibile senza ricorrere alla violenza”.