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Massimo Mannarelli

NICOLAE STEINHARDT, IL SAN PAOLO DI BUCAREST


Nicolae Aurelian Steinhardt nasce il 12 luglio 1912 nel villaggio di Pantelimon, nella periferia di Bucarest, in una famiglia di origine ebraica. Terminati gli studi liceali, si laurea in Lettere e Giurisprudenza presso l’Università di Bucarest dove inizia a frequentare il cenacolo letterario Sburatorul, diretto dal critico E. Lovinescu.

Dopo diversi viaggi in Svizzera, Austria, Francia e Gran Bretagna, Steinhardt diviene redattore dell’importante «Revista Fundatiilor Regale» dalla quale, a causa delle sue origine giudaiche, viene poi allontanato durante il regime fascista in Romania. La sua collaborazione ricomincerà poi nel 1944 sino alla soppressione della rivista nel 1948 da parte del regime comunista.

Rifiutatosi di collaborare con la Securitate come testimone di accusa contro il filosofo (e amico) Constantin Noica, (oggetto tra il 1949 ed il 1964 di persecuzioni da parte delle autorità comuniste che gli infliggono 10 anni di residenza forzata a Câmpulung-Muscel e 25 anni di lavoro forzato nel carcere di Jilava, come prigioniero politico) Steinhardt il 4 gennaio 1960 viene arrestato e condannato a tredici anni di prigione.

In carcere si verifica la rivoluzione interiore che segnerà tutta la sua vita, portandolo ad abbracciare il cristianesimo ortodosso. Il battesimo viene officiato da ecclesiastici di diverse confessioni cristiane, conferendo al sacramento un carattere ecumenico.

Dopo quasi quattro anni di internamento, Steinhardt beneficiando del decreto di condono per i reati politici viene rimesso in libertà.

Da questo momento inizia l’attività letteraria consegnando opere come “În genul… tinerilor” (Alla maniera… dei giovani), “Ȋntre viață şi cărți” (Tra vita e libri), “Escale ȋn spațiu şi timp” (Soste nello spazio e nel tempo), “Jurnalul fericirii” (Diario della felicità), “Primejdia mărturisirii – Convorbiri cu Ioan Pintea” (Il pericolo delle confessioni – Conversazioni con Ioan Pintea) nonchè migliaia di articoli, traduzioni, note e recensioni pubblicate su varie riviste.

Fra questi pregevoli scritti, non c’è alcun dubbio che un posto privilegiato spetti al Diario della felicità testimonianza della sua conquista di una fede salvifica, che dona a Steinhardt la felicità interiore e che lo porta a rifugiarsi sino alla morte nel piccolo monastero di Rohia, nel Maramures, dove entra nelle vesti del monaco Nicolae Delarohia.

In un libro posteriore, Primejdia, egli sintetizza mirabilmente il percorso spirituale descritto nel Diario: «No, non mi sono avviato al cristianesimo (…) per vie storiche, esegetiche, archeologiche, comparativistiche, non intellettualizzando, ragionando, comparando, studiando, riflettendo in modo selettivo, ma solo per la strada incantata dell’amore». Il Jurnalul, come recita il titolo, è un’opera costruita in forma di diario, redatto non secondo un ordine cronologico, ma concepito assecondando il libero flusso della memoria. Ogni sua parola ha in sé la sua luce, poiché parola di fede. Tutta l’opera non è un qualcosa di costruito, ma si configura piuttosto come un sistema solare dove la fede ortodossa è l’astro attorno al quale orbitano accadimenti comuni e tragedie, persone normali e intellettuali di rango, riflessioni sul quotidiano e intuizioni teologiche, materiale umano che viene illuminato, e poi riscaldato, a mano a mano che la luce si fa più forte e chiara. È la luce della nuova nascita nello spirito che conduce Steinhardt ad essere un vero cristiano ortodosso, a mitigare certi giudizi, a dichiarare che «ciascuno ha un pochetto di ragione», che «tutti godono del buio e della luce», che «l’amore per il nostro prossimo è il nostro vero dovere», che «la reale veritas si chiama caritas».

La discontinuità cronologico-narrativa costituisce una delle qualità da cui il Jurnalul trae la sua singolarità e la sua forza espressiva. Consapevole della parzialità del recupero memoriale, della relatività di ogni sistemazione storiografica, della molteplicità dei percorsi interpretativi, Steinhardt adatta i tempi verbali alle finalità della narrazione, secondo associazioni per cui gli eventi sono ricondotti non dalla storia all’interiorità, ma, all’opposto, dall’interiorità alla storia; tutto è organicamente correlato all’intentio auctoris, che è quella di riportare nel modo più concreto il percorso interiore che lo ha condotto alla fede cristiana.

Il Cristianesimo viene connotato con una semplicità e allo stesso tempo con una così singolare ricchezza semantica e spirituale.

«Il Cristianesimo», scrive, infatti, Steinhardt, «non è per gli uomini che vi vedono una specie di vago e mite cretinismo, buono per i bigotti e i creduloni. Il Cristianesimo è bollore, è scandalo, è pura follia, più audace e più esigente di qualunque teoria estremista. È una superdistensione, un super LSD. A paragone della dottrina cristiana, delle sue richieste e dei risultati, tutti gli stupefacenti e gli allucinogeni sono un impiastro, una diluzione minima Hanemann, un ferro vecchio». E ancora: «Non uso un linguaggio esagerato e denigratore quando affermo, forte e chiaro, che il cristianesimo è come la ricetta americana della felicità ed il libro di Dale Carnegie (Come vincere lo stress e cominciare a vivere, n.d.a.) elevati alla potenza n».

Forte della sua fede, Steinhardt contempla il mondo e le creature che lo popolano con lo sguardo sovrano e fulminante e la calda simpatia di un’anima che ovunque, persino in un lugubre carcere, rimane affollata di sentimenti, gioie, emozioni: un’anima sollevata dalle contingenze terrene, libera dallo spazio e dal tempo.

Parole forti, sembra di ascoltare un San Paolo moderno, che al furore oratorio unisce l’esigenza della sistemazione del pensiero in una dottrina implacabilmente chiara e calata nella prassi. Perché quando si tratta di enucleare le virtù che caratterizzano un vero cristiano, Steinhardt non manifesta incertezze dottrinarie, non si perde in complessità teologiche, ma indica con ammirevole nitidezza che il cristianesimo si incarna in tre valori fondamentali, che riassumono un’intera teologia: l’agape, l’amore universale e disinteressato: «Nel cristianesimo l’amore non è un precetto qualsiasi, è la sola cosa che rimarrà quando sarà scomparso tutto»; la gioia interiore: «Il cristianesimo è la religione della felicità. Una buona novella che cosa può produrre se non gioia?»; il perdono: «(Il cristianesimo) è l’insegnamento di Cristo, cioè dell’amore e della forza salvatrice del perdono». L’adesione al cristianesimo ortodosso e la trasformazione interiore che ne deriverà a Steinhardt costituiscono l’aspetto del Diario più apprezzato dai lettori e indagato dalla critica.

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