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Massimo Mannarelli

MUHAMMAD ALI E LA "NATION OF ISLAM"


Cassius Clay sentì parlare per la prima volta della Nazione dell’Islam a Chicago durante il torneo dei Golden Gloves. A colpirlo, in particolare, fu il sermone di Fratello John: “Era tutto molto chiaro per me, potevo toccare con mano ciò che diceva. Non era come in chiesa, quando dovevi aver fede nel predicatore, credere che fosse vero”.

Secondo Robert Lipsyte, al tempo giornalista del “New York Times”, Clay cominciava a comprendere quel richiamo all’identità che professava la Nazione: “Era l’epoca della rabbia dei bianchi contro l’integrazione ed Elijah Muhammad (capo della Nazione dell’Islam) parlava di autonomia”.

L’orgoglio, l’appartenenza, l’autodeterminazione erano parole che Cassius aveva sentito per la prima volta da suo padre, ma dalla bocca di Elijah uscivano più concrete e Clay ne subiva la fascinazione. “Comprendeva la loro forza e capiva anche che c’era poco da scherzare”, ricordava Ferdie Pacheco uno dei suoi secondi: “La Nazione era piena di ex carcerati, gente violenta, pronta a passare alle vie di fatto se li ostacolavi”. La Nazione per la sua carica sovversiva prendeva le distanze da Martin Luther King e dalla politica della non-violenza.

Clay ed Elijah diventarono amici all’inizio degli anni sessanta, ma la loro amicizia divenne pubblica quando Dick Schaap sull’Herald Tribune definì Clay “un fervente seguace di Elijah” e quando il “Philadelphia Daily News” rincarò la dose affermando che “pur non essendo un musulmano, Cassius ha detto che Elijah Muhammad è ‘grande’”.

La setta islamica prima dell’ingresso di Alì considerava la boxe “un vizio da bianchi”, ma cambiò idea non appena comprese che quel pugile gli avrebbe permesso una maggior copertura mediatica e alti introiti,.

Cassius incontrò Malcolm X a Detroit nel 1962, anche se la loro amicizia fu destinata ad aver vita breve. Prima dell’incontro mondiale con Liston, Malcolm e Cassius erano inseparabili, due fratelli di sangue. Malcolm caricava l’amico in vista del match: “Sono la croce e la mezzaluna che per la prima volta combattono sul ring per la vittoria” e ancora “È una crociata moderna: un cristiano e un musulmano faccia a faccia”.

Un discorso come questo non poteva che far piacere a Cassius che anche quando divenne Alì volle competere in negritudine con ogni avversario.

“Cassius Clay è un nome da schiavo. Io non l’ho scelto e non lo voglio. Io sono Muhammad Alì, un nome da libero.”

Gli storici concordano nell’affermare che Alì sia stato manovrato dalla Nazione per isolare Malcolm. Anche il pugile se ne rese conto, anche se troppo tardi: “Avergli voltato le spalle è stato uno dei rimpianti più grandi della mia vita”.

Alì incontrò Malcolm per l’ultima volta ad Accra, in Ghana. Si ritrovarono per caso in aeroporto, ma a quel punto Alì non aveva più niente da dire al suo amico se non: “Hai abbandonato il Venerabile Elijah Muhammad, è stata una scelta sbagliata”. Malcolm fu ucciso poco dopo il 21 febbraio 1965 ad Harlem da alcuni affiliati alla Nazione. Né Alì né Elijah si mostrarono sconvolti dalla sua morte.

La scelta di cambiare il nome non fu soltanto una questione religiosa, ma anche e soprattutto un atto politico architettato da Elijah. È vero che Cassius Clay, come qualunque nome afroamericano, era un nome da schiavo, ma per la sua famiglia era soprattutto un motivo di orgoglio. Il padre e il figlio erano stati chiamati così in onore di un abolizionista del Kentucky. Inoltre fino a quel momento a Clay quel nome non dispiaceva per niente: “Cassius Marcellus ti fa pensare al Colosseo, ai gladiatori romani.” Quando diventò Muhammad Alì, dice David Remnick, Cassius “si adeguò a nuovi ordini di Elijah”.

Assegnare un nuovo nome ai membri della Nazione significava profondissima stima: era soltanto il profeta che poteva dispensare queste onorificenze. Così facendo Elijah da una parte cementificava il legame con il pugile, e dall’altra disinnescava l’influenza di Malcom X su Cassius.

Il 6 marzo del 1964, una settimana dopo la vittoria del titolo mondiale contro Liston, Elijah tenne un discorso in radio in cui annunciò che il nome di Clay “mancava di significato divino”.

Per la famiglia e in particolare per il padre, la conversione all’islam del figlio fu una delusione tremenda. Secondo Cassius senior il figlio era stato raggirato da quei “diavoli musulmani”.

In seguito alle notizie della sua conversione e del cambio di nome, la maggioranza dei giornali dell’epoca attaccò il pugile. A difenderlo c’era solo il suo entourage, interessato esclusivamente alla preparazione atletica in vista della difesa del titolo mondiale.

Lo scrittore Norman Mailer definì tutto questo “il capitalismo dell’ego”: “L’unica ricchezza possibile per lui era il rispetto nel proprio territorio.” Lo stesso Alì, una volta ritirato, confermò: “Se io non avessi mai urlato all’inizio della mia carriera nessuno mi avrebbe dato importanza”.

L’Islam in Ali divenne uno “strumento”, quell’aratro che gli permetteva di seminare il suo territorio di appartenenza e dare un valore alla sua anima di alienato.

Alcuni commentatori sportivi paragonarono la scelta della religione islamica a un “messaggio di odio”. La WBA provò a sospendere il campione per “condotta pregiudizievole per gli interessi della boxe” senza però riuscirci. In tutti gli Stati Uniti, ricostruisce Remnick, l’unico bianco ad aver preso bene la conversione di Alì fu Richard Russell, senatore segregazionista della Georgia. Così com’era avvenuto quattro anni prima tra la Nazione e il KKK, gli intenti separatisti accomunavano. Alì ne era convinto: “L’integrazione è sbagliata, i bianchi non la vogliono e non ci credono neanche i musulmani”.

In Italia il dibattito su Alì si accese grazie a Oriana Fallaci che lo intervistò il 26 maggio 1966 per l’Europeo. Anche se in quest’occasione la giornalista non sembrava sempre mettere bene a fuoco Alì, prendendolo seriamente mentre lui la prendeva in giro, Fallaci gli riconobbe “un qualcosa di commovente, di dignitoso, di nobile. Nel suo fanatismo v’è come una purezza, nella sua passione v’è qualcosa di buono. Vorrei essergli amica”.

L’anno dopo Alì sorprese con un’altra trovata ancora più esplosiva. “Nessun Vietcong mi ha mai chiamato ‘negro.’” La renitenza alla leva gli costò titolo mondiale e anni di sospensione. Ma fu l’inizio di una nuova fase, quella della lenta e inarrestabile riabilitazione agli occhi dell’opinione pubblica. I fratelli neri che l’avevano trascurato per la sua conversione alla Nazione adesso lo amavano per “quel supremo atto di sfida”, come lo definì la scrittrice Jill Nelson. A quel punto Ali incominciava a essere molto più che un pugile, diventando un personaggio mondiale e ai suoi spettacoli partecipavano e si divertivano anche molti “diavoli bianchi”.

In una delle lunghe e profonde disamine di Mailer in “La sfida”, ispirato dall’atmosfera che si respirava a Kinshasa prima del “Rumble in the Jungle”, si parlava di Alì, in quanto nero americano, come di un alienato, separato tra due culture: quella africana e quella americana. “Poiché viveva in un campo di forze umane in continuo e drammatico mutamento, in cui le persone che conosceva venivano arrestate, uccise, o cadevano preda della droga, [il nero americano] doveva assolutamente affermare se stesso.”

Alì, grazie all’appoggio di Elijah Muhammad, che in questo senso fu un “salvatore” che raccoglieva sotto la sua ala i più bisognosi, aveva capito che non doveva buttare la sua vita ma fare qualcosa di costruttivo: “Sono entrato nella boxe perché pensavo che fosse il modo più veloce, per un nero, di sfondare in questo paese.”

Una volta che i confini erano stati segnati e avviato il processo di autodeterminazione, non c’era più bisogno di “urlare”. Con il riconoscimento anche da parte dei bianchi, con una motivazione finalmente intellettuale non più rabbiosa, Alì attenuò il radicalismo, così come aveva capito anni prima l’amico Malcolm. Essere un musulmano restava il valore della sua forza, ma ciò che prima poteva essere espresso soltanto con la segregazione, diventava possibile anche con l’integrazione. Il messaggio di Alì si fece condivisibile e semplice. In alcuni casi anche troppo, come quando nell’84 appoggiò la candidatura di Reagan perché “vuole che Dio resti nelle scuole, e questo è sufficiente”.

Amir Baraka, scrittore e musicista nero, a quel tempo molto vicino ad Alì e coinvolto anche lui nella lotta per i diritti degli afroamericani, definì la scelta del pugile quella di un “sempliciotto”: “Aveva abbracciato quell’ideologia casereccia, figlia diretta della fervida spiritualità e delle aspirazioni da povero negro; era semplicemente arrabbiato anziché intellettualmente motivato”.

Dal 1964, anno in cui dichiarò pubblicamente la sua conversione, Alì non smise mai di stupire: l’ingresso nella Nazione dell’Islam, l’amicizia con Elijah Muhammad, il contrasto con Malcolm X, la rottura con la famiglia, il rifiuto del Vietnam e quello del nome di battesimo, l’arroganza e la goliardia, l’appoggio a Reagan e l’impegno civile. Scelte a volte illuminanti altre volte oscure che lo hanno reso sì il “più grande atleta del Novecento”, ma anche il più inafferrabile.

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