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Massimo Mannarelli

BUDDHISMO E PSICONALISI


Il Buddhismo ha avuto origine nel quinto secolo a. C., in quello che oggi è il nordest dell’India.

Nel periodo precedente alla comparsa del Buddismo, una nuova tendenza religiosa aveva iniziato a diffondersi, la tradizione upanishadica. Essa comportava una reinterpretazione dei Veda, che enfatizzava l’importanza del significato interiore delle cose, rispetto all’espressione esterna e magica dei riti sacri.

Una delle conseguenze della diffusione di tale dottrina fu la svalutazione dell’esperienza terrena dei sensi, in favore di quella trascendente.

Le due pratiche principali usate per guadagnare tale trascendenza erano la meditazione e la mortificazione della carne.

Il Buddismo, al contrario, negava l’esistenza di un atman o di qualsiasi sé trascendente o anima. Non riteneva però che il sé non esistesse, piuttosto che si andasse formando, momento per momento, sulla base di una varietà di componenti: memorie, sensazioni fisiche, emozioni, concetti, disposizioni (incluso sia il condizionamento inconscio che quello ereditato) e così via. Il Buddha, infatti, aveva capito che la costruzione del sé è sempre influenzata da cause e condizioni costantemente mutevoli.

Dal punto di vista buddhista, il sé, come ogni cosa al mondo, è transitorio o impermanente. La morte, la malattia e il lutto sono ineliminabili aspetti della vita. La sofferenza è il risultato del tentativo di aggrapparsi a ciò che si desidera, evitando ciò che causa dolore.

Il Buddha ha vigorosamente rifiutato l’ascetismo estremo come pratica spirituale e ha proposto, invece, ciò che viene definito come La Via di Mezzo, che rappresenta una via intermedia tra i due estremi dell’ascetismo da un lato e dell’edonismo e della sensualità dall’altro. L’obiettivo nel Buddhismo diventa, quindi, non tanto quello di trascendere l’esperienza terrena, quanto quello di trovare un modo più saggio di viverla.

La meditazione tramite la concentrazione, gioca un ruolo importante nella maggior parte delle tradizioni buddhiste, e consiste in un’osservazione distaccata della propria mente. Essa aiuta l’individuo a sviluppare la consapevolezza dell’attimo necessaria per osservare la propria esperienza in modo pieno.

Quest’obiettivo è in accordo con l’enfasi che la tradizione buddista pone sull’imparare a vivere pienamente in questo mondo, invece che ricercare esperienze che vadano oltre quella terrena.

Nel Buddhismo della tradizione Tathagatagarbha, si sostiene che tutti gli esseri senzienti siano dotati della natura del Buddha e che hanno quindi il potenziale per “risvegliarsi” e realizzare la loro identità intrinseca di esseri illuminati. Questa essenza del Buddha, anche definita quiddità (“come essa è”, “in quanto tale”), o tathata in sanscrito, è spesso considerata un equivalente della vuotezza, ma ha una qualità più positiva. Essa è descritta come senza inizio e senza fine e come permeante ogni cosa.

Sebbene originariamente il Buddha fosse servito come esempio del modo in cui tutti gli esseri umani potevano raggiungere l’illuminazione attraverso i propri sforzi, gli sviluppi successivi del Buddhismo in India tesero a rappresentare l’illuminazione come uno stato sempre più straordinario, rarefatto e trascendente, accessibile a pochi. Lo Zen cercò di riportare l’illuminazione sulla terra, dove effettivamente era, e cercò di demistificarla e demitizzarla.

L’illuminazione, nella tradizione zen, viene generalmente associata alla spontaneità e alla libertà dal dover inibire la propria autoconsapevolezza e dal conformismo.

Negli anni Cinquanta e Sessanta il buddhismo comincia ad attrarre pensatori psicoanalitici come Erich Fromm e Karen Horney; anni più tardi l’attenzione verso questo argomento crebbe, come è evidente dalla popolarità dei testi di autori come Mark Epstein (1995, 1998, 2001), Jeffrey Rubin (1996), John Suler (1993), Anthony Molino (1998) e Barry Magid (2002).

L'interesse della psicoanalisi verso il buddhismo apparve all’inizio del XX secolo, quando la visione laica del mondo divenne dominante e le imprese del razionalismo scientifico allontanavano sempre più le persone dalla credenza in Dio; tale attenzione della psicoanalisi verso il buddhismo era caratterizzata dal fatto che quest'ultimo non fosse una religione nel modello giudaico-cristiano, con il credo in Dio e una dottrina teologica.

Uno degli aspetti del Buddhismo che attrasse una cultura laica e psicoanalitica secondo Stephen Batchelor (1997) fu che il Buddismo era una “religione senza credenze”, o, nelle parole di Alan Watts (1996), “una religione della non-religione”. Questo rendeva il Buddhismo una religione attraente per l’uomo post-religioso, post-moderno, con la fame di religione, ma non abbastanza stomaco per nutrirsi di credenze religiose.

Freud (1927, 1930) affermava che una delle funzioni primarie della religione fosse quella di fornire alle persone conforto nel fronteggiare le inevitabili crudeltà e ingiustizie della vita. Era comunque questo un tentativo immaturo e auto-deludente di trovare conforto in una figura di padre onnipotente e divino. Egli, come molte persone laicamente orientate, ripose la sua fede nella scienza; per quanto possiamo affermare che gran parte delle teorie di Freud nascono da una interpretazione del mito.

Jeremy D. Safran nel suo articolo "Psicoanalisi e Buddhismo come istituzioni culturali" affermava che è ormai chiarito che la psicoanalisi non è una scienza come lo sono la fisica o la chimica, ma è piuttosto una forma laica di spiritualità; poiché essa svolge la funzione di riempire il vuoto che un tempo era riempito dalla religione.

Il sociologo Philip Reiff (1966) confermava (forse a sua insaputa) le tesi di Guénon, sostenendo che l’analisi non fosse un’iniziazione, bensì una contro-iniziazione che poneva fine al bisogno di iniziazioni.

Reiff mancò di comprendere che la psicoanalisi non era esente da suggestioni e persuasioni, e che un certo grado di indottrinamento nel sistema di valori dell’analista è sia inevitabile che auspicabile.

Secondo Reiff : "l’uomo religioso dei tempi pre-moderni è stato sostituito dall’uomo psicologico, e la psicoanalisi ha giocato un ruolo importante in questa trasformazione".

Safran affermava che "Sebbene l’affermazione che il Buddhismo non richiede alcun tipo di fede religiosa sia fino ad un certo punto vera, la realtà è più complessa. Il Buddhismo, come la psicoanalisi, è una tradizione eterogenea con scuole differenti e principi in conflitto tra loro e apparentemente contraddittori. Sia il Buddhismo che la psicoanalisi sono istituzioni culturali che originariamente si sono sviluppate come espressione dei valori e delle complesse tensioni e contraddizioni all’interno delle loro culture d’origine. Entrambi sono sistemi di cura che si sono evoluti nel tempo, così come si è evoluta la cultura, come si è evoluta la configurazione del sé e come le nuove culture li hanno assimilati. Ed entrambi hanno trasformato le culture nelle quali si sono sviluppati. La psicoanalisi di oggi è molto diversa da quella freudiana, e la psicoanalisi americana è molto diversa da quella francese. Il significato del Buddhismo è estremamente differente per un contemporaneo nord-americano o europeo, per un buddhista indiano dell’Età Assiale e per un buddhista cinese del Medioevo”.

Reiff sosteneva che la psicoanalisi fosse un metodo curativo qualitativamente diverso dalle cure tradizionali. Un approccio che liberava le persone dal tipo di dedizione richiesto dalla religione tradizionale e dalle altre istituzioni sociali.

Più di recente, analisti come Wilfred Bion (1970), Michael Eigen (1998) e James Grotstein (2000) hanno sviluppato approcci che tentano di incorporare nuovamente lo spirituale attraverso ciò che può essere pensato come un modello di misticismo psicoanalitico.

Philip Cushman (1995), sostiene che la disintegrazione della rete unificante di credenze e valori, che ha sempre riunito le persone e dato significato alla vita, ha portato allo sviluppo di ciò che egli definisce il sé vuoto. Questo sé vuoto sperimenta l’assenza di tradizione, comunità e significato condiviso, come un vuoto interiore, una mancanza di convinzione personale e di valore, e una fame emozionale cronica e indifferenziata.

Secondo Lasch, le istituzioni di psicoanalisi e psicoterapia si sono assunte il compito di riempire il vuoto culturale lasciato dal crollo delle istituzioni culturali tradizionali.

Freud (1927) riteneva che la religione costringesse le persone a rinunciare ai loro istinti, attraverso le promesse di una salvezza illusoria e le minacce di una punizione eterna. Egli riteneva che fosse importante per le persone avere il coraggio di riconoscere in modo genuino e accettare le avversità, la crudeltà e le umiliazioni della vita, abbandonando il conforto illusorio della religione, per poter dedicare le proprie energie a creare una vita migliore sulla terra.

Ma, per la prospettiva post-moderna, Il dialogo tra Buddhismo e psicoanalisi ha fornito un confronto tra due diverse strade verso la liberazione: la visione freudiana spesso cinica e più pessimistica e la dottrina buddhista decisamente più ottimista.

Nel Buddhismo tibetano, una delle pratiche meditative fondamentali è quella definita del “guru yoga”. Essa ha l’obiettivo di facilitare lo sviluppo di fede e devozione verso il proprio lama.

In termini psicoanalitici, la tradizione tibetana cercherebbe di favorire il dispiegarsi di un transfert idealizzante nei confronti del maestro, e di usare ciò come veicolo di cambiamento. Tale transfert costituisce un’ispirazione continua per lo studente, che per procedere lungo il difficile sentiero dello sviluppo spirituale lo aiuta a generare e mantenere viva l’idea che il cambiamento (o il sollievo dalle sofferenze) sia possibile.

Nella tradizione tibetana, la relazione con il lama non è mai interpretata, come invece avviene nella psicoanalisi. Fin dal principio, tuttavia, si insegna allo studente a coltivare una visione paradossale nei confronti del lama; egli è visto, da un lato, come la personificazione dei più alti ideali e valori della tradizione buddhista e, dall’altro, come un essere umano, con limiti e difetti umani.

Allo studente s’insegna ad evocare, nella sua immaginazione, un mondo di divinità della meditazione o ad attribuire al lama poteri straordinari; poi gli si insegna ad usare queste immagini, costruite nella sua fantasia, per aiutarsi a coltivare certe attitudini verso la realtà. Alla fine di ogni seduta di meditazione, il meditatore dissolve l’immagine, riportandola alla non essenza da cui ha preso origine.

Il Buddhismo pone il confronto con la morte, la perdita e la sofferenza, al centro delle cose. E, alla fine, offre un rifugio, non nella promessa di una vita futura migliore o della protezione da parte di una figura divina, ma nella forma di un percorso verso una maggiore accettazione della vita come essa è, con il suo dolore e la sua sofferenza, qui il riconoscimento e accettazione dell’impermanenza di ogni cosa conduce, paradossalmente, a un’esperienza di pace e alla capacità di valorizzare a pieno la vita.

È interessante che Freud stesso espresse una sensibilità simile in un breve saggio scritto nel 1915 (a ridosso della Prima Guerra Mondiale), nel quale riportava una conversazione con un giovane poeta che aveva espresso abbattimento nel contemplare la natura impermanente dell’esistenza. Freud rispose che il riconoscimento del fatto che tutto sia intrinsecamente impermanente può originare abbattimento o un maggiore apprezzamento di ciò a cui teniamo. Il fattore determinante è se siamo capaci di accettare a pieno questa transitorietà intrinseca, senza indietreggiare di fronte al lutto che è collegato a questa accettazione.

Nella prospettiva buddhista la rabbia, il desiderio e l’illusione sono definiti “i tre veleni della mente”.

Nel libro del Dalai Lama e dello psicologo Daniel Goleman si parla proprio di questo: la rabbia, il desiderio e l’illusione rappresentano stati emotivi oscuranti in quanto compromettono la capacità di giudizio e di corretta valutazione sulla natura delle cose, oscurando appunto il modo di essere delle cose stesse. In questi termini le emozioni oscuranti limitano la libertà dell’individuo costringendolo a pensare, parlare e agire in base a dei condizionamenti. Al contrario sono definite costruttive quelle emozioni che vanno di pari passo con una valutazione più corretta della natura di quanto percepito e sono fondate su un uso sano della ragione.

Per quanto riguarda la psicologia, per il Dalai Lama «C’è bisogno di più educazione su come affrontare le nostre emozioni. Dobbiamo imparare quanto possano essere diffuse la rabbia distruttiva e una generale mancanza di interesse per gli altri. Le armi e l’uso della forza non risolvono i problemi. La violenza porta solo a contrastare la violenza, che così continua. Una mente pacifica fa bene alla nostra salute e il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di evitare la violenza e far diventare questo un secolo di dialogo. Mentre non tutti accettano più la religione, le scoperte scientifiche hanno un appeal più universale.

Ii Dalai Lama ha affermato inoltre che “Ciò che chiamiamo “mente” è del tutto peculiare: a volte è molto indisciplinata e difficile da cambiare ma, con uno sforzo continuo e con una determinazione radicata nella ragione, le nostre menti a volte sono abbastanza oneste. Quando abbiamo veramente la sensazione che ci sia qualcosa che vada cambiato, allora la nostra mente può cambiare. Desiderare e pregare solamente non trasformerà la vostra mente, ma con la determinazione e la ragione, basata sulla vostra esperienza personale, è possibile trasformare la vostra mente.

Da tempo il buddhismo lavora per dare delle risposte razionali, pratiche ed accessibili a coloro che cercano di percorrere una Via spirituale fuori dalle religioni o Vie tradizionali.

Il buddhismo si presenta, per alcuni, nel modo in cui esso sono in grado di riceverlo, ossia svestito di rituali o forme di tipo tradizionale.

La “Via del Buddha” tanto cara a studiosi del calibro di Giovanni Tucci, ha assunto una forma di “psicologia buddhista” come nel caso del Dalai Lama, oppure del “Buddhismo impegnato” di Thich Nhat Han (monaco buddista –zen, vietnamita) che dà una risposta a ogni cosa che accade qui e ora: dal riscaldamento globale, dai cambiamenti climatici e dalla distruzione dell’ecosistema, alla mancanza di comunicazione, al fanatismo e all’intolleranza, dalle guerre, dai conflitti e dal terrorismo, al suicidio, alle famiglie spezzate, alle tensioni personali, con il loro corredo di stress, ansie, paure, violenze.

Secondo la scuola di Tich Nath Han i praticanti dovrebbero essere consapevoli di ciò che ci accade nel corpo, a livello di sensazioni, emozioni, all’ambiente che ci circonda e alle persone che incontriamo, e fare concretamente tutto ciò che possiamo per risolvere, o alleviare, le situazioni di sofferenza, e tutto ciò senza necessariamente abbandonare la propria religione di appartenenza e senza che il buddhismo stesso venga vissuto come una religione nel senso tradizionale, quanto piuttosto una pratica attraverso la quale lavorare su noi stessi; ciò sembra dover avvenire attraverso un cammino di tipo orizzontale (verso se stessi) e non verticale, ossia rivolto verso il trascendente.

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