IL MISTICISMO IRRELIGIOSO DI CARMELO BENE
I continui riferimenti di Carmelo Bene all’estasi mistica e il ricorrente rimando nel suo teatro alle opere scultoree di Gianlorenzo Bernini come la Beata Ludovica Albertoni ammirabile nella chiesa di S. Francesco a Ripa in Roma o la Transverberazione di S. Teresa in Santa Maria della Vittoria, consentono a Bene di raggiungere una dimensione di abbandono della parola in favore di uno scorporamento della medesima, che non ha più funzione comunicativa nel senso comune, ma diviene alone del suono di una lettura-oblio. Eppure, paradossalmente, il massimo di amplificazione sonora, che sembra spacciare ogni comprensione, coincide col massimo di penetrazione acustica… Un esempio di Carmelo Bene forse ci aiuterà a capire: “Ho tra le mani un foglio, scritto o disegnato. A distanza, ne decifro perfettamente i margini e il significato totale. Lo accosto a venti centimetri dagli occhi e ne decifro il senso dei dettagli. Avvicino questo foglio al mio naso e qualunque leggibilità è sbiancata. Il massimo del blow-up ottico-acustico coincide con il minimo dell’ingrandimento (visibilità-udibilità zero). Ecco l’amplificazione come risonanza. La fenomenologia del soggetto è finalmente solarizzata. È accecato l’ascolto”.
Il “misticismo irreligioso” di Bene permette all’attore di proiettarsi in una finzione scenica che non coincide più con il tempo storico, il kronos dei greci, ma entra in contatto con il tempo aiòn (concetto di cui Bene si dichiara debitore nei confronti del Deleuze di “Logica del senso” del 1969), l’immediato, l’attimo degli stoici. In tutto ciò l’irrappresentabile coincide con l’impossibile, l’atto diventa primario e l’azione si sconcretizza nel baratro del nulla scenico. L’immediato, secondo Bene, è quel momento sublime avvertibile dallo spettatore (disposto anche a pagare milioni di lire a serata per questo istante) non solo a teatro, ma anche durante un evento sportivo come una partita di calcio: gli assist di un Van Basten o le invenzioni geniali di un Maradona avvengono proprio nell’aion e sono momenti di non consapevolezza degli attori-calciatori medesimi, estraniati da se stessi come nell’estasi mistica. Per questo motivo, per questa epochè dell’azione, sublimata dall’atto inconsapevole, egli sostiene che della parola “attore” si sia confuso l’etimo. Riportiamo un brano dal film “Nostra Signora dei Turchi” del 1968, pellicola parodica sulla distruzione dell’io, della vita interiore, temi sviluppati come se ci si trovasse al cospetto di specchi deformanti del concetto stesso di Santità:
“Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna. Io sono un cretino che la Madonna non l’ha vista mai. Tutto consiste in questo, vedere la Madonna o non vederla. […] I cretini che vedono la Madonna hanno ali improvvise, sanno anche volare e riposare a terra come una piuma. I cretini che la Madonna non la vedono, non hanno le ali, negati al volo eppure volano lo stesso, e invece di posare ricadono. […] Ma quelli che vedono non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono. E’ l’estasi questa paradossale identità demenziale che svuota l’orante del suo soggetto e in cambio lo illude nella oggettivazione di sé, dentro un altro oggetto. Tutto quanto è diverso, è Dio. Se vuoi stringere sei tu l’amplesso, quando baci la bocca sei tu. […] Ma i cretini che vedono la Madonna, non la vedono, come due occhi che fissano due occhi attraverso un muro: miracolo è la trasparenza. Sacramento è questa demenza, perché una fede accecante li ha sbarrati, questi occhi, ha mutato gli strati -erano di pietra gli strati- li ha mutati in veli. E gli occhi hanno visto la vista. Uno sguardo. O l’uomo è così cieco, oppure Dio è oggettivo. […] I cretini che non hanno visto la Madonna, hanno orrore di sé, cercano altrove, nel prossimo, nelle donne – in convenevoli del quotidiano fatti di preghiere – e questo porta a miriadi di altari. Passionisti della comunicativa, non portano Dio agli altri per ricavare se stessi, ma se stessi agli altri per ricavare Dio. L’umiltà è la conditio prima. I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi. Come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all’assoluto comunque. Essere il più gentile dei gentili. Essere finalmente il più cretino. Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione”.
Il “volo” di cui parla Bene, oltre al significato metaforico di distanziamento da sé e dal mondano, va attribuito al Santo di Copertino Giuseppe Desa, nato nelle Puglie nel 1603, “illetterato et idiota”. Si dice che questo frate avesse il dono della levitazione e che tale fenomeno si verificasse soprattutto durante le preghiere che venivano rivolte alla Madonna. Più volte i suoi confratelli (così narra la leggenda) furono costretti a trattenerlo al suolo per evitare che “frate asino” si dileguasse in cielo.
“Giuseppe da Copertino - racconta Bene - è personaggio controverso, la chiesa aspetterà duecento anni prima di farlo santo. […] Sempre circondato da poveri. Chi orbo, chi storpio, chi deforme. Si aggrappano alla sua tonaca e lui se li porta in alto, salvo poi lasciarli sfracellare al suolo quando la presa dei malcapitati manca. […] Si risvegliava, frate Asino, quasi sempre in cima al cornicione della chiesa o sopra un ramo d’ulivo, in posizioni molto precarie. […] Analfabeta totale, parlava da ignorante ma, nella sua ignoranza, è degno di San Giovanni della Croce. Morì a Osimo. Disteso su un catafalco, appena coperto da un velo fu esposto ai fedeli. La ressa nella cattedrale era tanta e tale che scoppiò improvviso un grande incendio. Fu una carneficina, morti, ustionati. Il cadavere di frate Asino rimase intatto. Gli fu asportato il cuore e tagliato un dito. Fanatismo devozionale d’un conterraneo. Si possono ammirare queste reliquie nella bacheca sacra della “grottella” a Copertino”.
Il centro della riflessione di Bene è una drastica riconsiderazione del linguaggio e della comunicazione in genere.
Con l’ausilio di una sofisticatissima apparecchiatura elettronica costituita da amplificatori, microfoni ipersensibili, monitor-spie da diecimila watt, egli tenta il superamento della dimensione linguistico-comunicativa attraverso la manipolazione tecnica del significante. Spesso l’attore fa riferimento all’opera del pittore inglese Francis Bacon, per illustrare visivamente il suo intento: come quest'ultimo modifica la dimensione corporea portandola ai confini della carne, in un tentativo estremo di fuga dei corpi da se stessi (si pensi al famoso ciclo dei “Papi urlanti” ripresi dal dipinto di Innocenzo X di Velazquez del 1650), allo stesso modo Bene dà vita ad una deformazione della phonè, una disarticolazione dell’atto linguistico che dovrebbe alterare a tal punto la comunicazione e consentire di interloquire direttamente da un interno (quello dell’attore in scena) a un altro interno (quello dello spettatore in sala).
Bene afferma che il termine “attore” deriva dal verbo agere, perorare e non da “agire”, immensamente distante dallo sfaccendare dei protagonisti di molte pellicole d’azione; os oris, atto-retorico in quanto, come voleva Lacan, “il discorso non è l’essere parlante”. L’attore diventa discorso avulso dall’essere che lo pronuncia, pura macchina estatica, senza più testi di riferimento e, seguendo l’insegnamento di Nietzsche:
“Ciò che nel linguaggio meglio si comprende non è la parola, bensì il tono, l’intensità, la modulazione, il ritmo con cui una serie di parole vengono pronunciate. Insomma la musica che sta dietro le parole, la passione dietro questa musica, la personalità dietro questa passione: quindi tutto quanto non può essere scritto. Per questo lo scrivere ha così poca importanza”.
Carmelo Bene sintetizza il pensiero del filosofo Deleuze nei suoi saggi per rimarcare il proposito dell’attore di essere presente-assente in scena, considerando la megalomania un dovere dell’uomo e, inevitabilmente, molti dei suoi interventi pubblici appaiono iperbolici e paradossali.
Il motto di Eduardo De Filippo, “complicarsi la vita”, sembra essere il motivo principale dell’opera di Carmelo Bene sia teatro e sia al cinema. Caligola, Lorenzaccio, Otello, Macbeth, Pinocchio sono tutti personaggi rappresentati da Bene con l’intento paradossale di non lasciare traccia nella memoria dello spettatore; questi, durante la sua presenza in sala, si deve abbandonare al flusso dei significanti e, per quanti sforzi possa compiere nel ricordo, non potrà mai raccontare ciò che ha udito a teatro. La perfetta idiosincrasia che la “macchina attoriale” di Bene opera tra scritto e orale, come non ricordo della pagina scritta, diventa intestimoniabile per lo spettatore.
«Credere alla Storia significa agognare il possibile, postulare la superiorità qualitativa dell’imminente sull’immediato, ritenere che il divenire sia per se stesso abbastanza ricco da rendere superflua l’eternità. Si smetta di crederci, e nessun evento avrà più la minima importanza».
Questo pensiero religioso (propriamente detto filosofico) si impernia sulla ricerca dell’uomo che deve uscire da una condizione limitante che è quella della storia e deve uscirne per ricongiungersi con l’Assoluto. . E questo ritorno verso l’assoluto avviene attraverso una esperienza mistica che trascende il pensiero e quindi quest’ultimo va in qualche modo annullato e superato. D’altro canto, il pensiero è necessario per avvicinarsi a questa esperienza mistica.
Bene parla solo con l’assenza con il suo non-esserci. Crede in Dio in quanto non esistente, come assenza.
Bene riprende, dunque, la concezione propria tipica del misticismo, cioè la tendenza dell’anima all’unione con l’Assoluto, caratterizzata da un progressivo distacco sia dalla coscienza sensibile sia da quella razionale, fino alla perdita dell’io nel Tutto.
Egli non vuole più dare appuntamento con il reale, con l’ovvio, col logico, col razionale. Esige l’informe, l’abbandono, l’incomprensibile, il buio musicale, quello che Nietzsche chiamava «lo spirito della musica». Per questo Carmelo concluderà dicendo: «… Il grande teatro è quanto non è comprensibile. Quindi la cosa non è più nel negativo, io sono uscito dall’equivoco del negativo, sono uscito da tutte le impasse, positive, negative, sono uscito dal pensiero».