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  • Massimo Mannarelli

SIMONE WEIL "OGNI RELIGIONE E' QUELLA VERA"


Simone Adolphine Weil (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943) è stata una filosofa, mistica e scrittrice francese, la cui fama è legata, oltre che alla vasta produzione saggistico-letteraria, alle drammatiche vicende esistenziali che attraversò, dalla scelta di lasciare l'insegnamento per sperimentare la condizione operaia, fino all'impegno come attivista partigiana, nonostante i persistenti problemi di salute.

Alla fine del 1941, a Marsiglia, Simone Weil riflessee in un suo quaderno la sua polemica contro la "mancanza di fede" e l'"ortodossia totalitaria della Chiesa". La Weil, dopo varie altre enunciazioni giunse a quell'affermazione finale di straordinaria forza: "Ogni religione è l'unica vera, vale a dire che nel momento in cui la si pensa è necessario applicarle così tanta attenzione, come se non vi fosse nient'altro; allo stesso modo ogni paesaggio, ogni poesia, ecc. è l'unico bello. La "sintesi" delle religioni implica una qualità di attenzione inferiore".

Mentre la gnosi antica, il Rinascimento, l'età illuministica e il romanticismo avevano espresso tentativi di sincretismo o, appunto, di sintesi, spesso ponendo al centro di tutto il cristianesimo, come il deismo massonico, la religione della Rivoluzione francese e certe ambizioni di Tolstoj sfociate anche nell'anarchismo mistico e nell'anarchismo cristiano, l'universalismo della Weil, invece, non consisteva nel perseguire una nuova sintesi delle religioni, poiché tale sintesi avrebbe comportato una qualità di attenzione inferiore.

Secondo la Weil, l'attenzione che l'operaio presta alla macchina, l'attenzione che chi studia una lingua presta ai suoi caratteri, l'attenzione di chi contempla un'opera d'arte, l'attenzione alla sventura, l'attenzione dell'"amore soprannaturale e della preghiera" sono tutte varietà dello stesso atteggiamento di fondo, quando l'oggetto di attenzione è unico ci si dimentica completamente di sè noi stessi.

Per abbattere le cicale in pieno volo, sosteneva la Weil, era sufficiente non vedere nell'universo intero altro che la cicala presa di mira: non era possibile mancarla...", ma anche

"Privare tutto ciò che io chiamo "io" della luce dell'attenzione e riversarla sull'incomprensibile"; "Quando una cosa è perfettamente bella, non appena vi si fissa l'attenzione, essa è l'unica bellezza. Due statue greche: quella che si guarda è bella, l'altra no. Così la fede cattolica e il pensiero platonico e il pensiero indù ecc. [...] Così coloro che proclamano vera e bella solo una certa fede, sebbene abbiano torto, in un certo senso hanno più ragione di quelli che hanno ragione, perché essi l'hanno guardata con tutta la loro anima".

La sintesi delle religioni nasceva invece solo alla disattenzione, incapace di penetrare un oggetto sino a percepirne l'unicità.

La Weil sosteneva che "Nella situazione presente l'universalità [...] deve ora essere pienamente esplicita. Essa deve impregnare il linguaggio e tutta la maniera d'essere" .

Per quanto concerneva il cristianesimo, affermava "Occorre essere cattolici, e cioè non essere vincolati a niente di creato, che non sia la totalità della creazione. Questa universalità poté in altri tempi essere implicita, anche nella loro stessa coscienza".

Il comandamento dell'amore, dice la Weil nella stessa pagina, era "anonimo e per ciò stesso assolutamente universale"; "Oggi non è niente essere santi, occorre la santità che il momento presente esige, una santità nuova, senza precedenti". La riflessione della Weil sull'universalismo diveniva discussione sul senso da attribuirsi all'idea di totalità, ovvero di cattolicesimo, come attributo sostanziale del cristianesimo.

A riguardo, scriveva che "la religione cattolica contiene esplicitamente verità che altre religioni contengono implicitamente. Ma inversamente altre religioni contengono esplicitamente verità che nel cristianesimo sono soltanto implicite. Il cristiano meglio istruito può imparare ancora molto sulle cose divine anche da altre tradizioni religiose, sebbene la luce interiore possa anche fargli percepire tutto attraverso la propria tradizione. E tuttavia, se le altre tradizioni sparissero dalla faccia della terra, la perdita sarebbe irreparabile. I missionari ne hanno già fatte sparire troppe".

La Weil non intendeva l'universalismo come il creare una superlingua, che contenesse e superasse le altre. "Credo - affermava nella Lettera a un religioso - che per un uomo cambiare religione sia altrettanto pericoloso che per uno scrittore cambiare lingua. La cosa può avere successo, ma può anche avere conseguenze funeste".

Secondo lo storico delle religioni Pier Cesare Bori, la Weil non cercava una sintesi, ma cercava di aprire il cristianesimo dall'interno, attraverso la lettura simultanea di fonti cristiane e non cristiane, in modo che il più possibile potesse risaltare la corrispondenza sostanziale, al di sotto della molteplicità insuperabile dei linguaggi. La lingua biblica veniva così piegata alle esigenze di una inaudita impresa di traduzione e di scambio tra culture.

Per la Weil: "Per ogni individuo la sua religione, se vi crede realmente, è qualcosa di assolutamente inseparabile da lui stesso, qualcosa di unico, che non può essere paragonato a nient'altro, né sostituito con alcuna altra cosa. Da questo punto di vista, c'è una analogia con la nostra lingua materna. Essa può sembrare ad altre lingue per le sue forme o per il suo meccanismo; nella sua essenza, nell'uso che ne facciamo occupa un posto a parte e non potrebbe avere né eguali né rivali. Ma nella storia del mondo la nostra religione, al pari della nostra lingua materna, deve essere considerata come facente parte di un vasto insieme. Se vogliamo arrivare a vedere nettamente e esattamente la posizione del cristianesimo nella storia universale e il suo vero posto tra le religioni dell'umanità occorre paragonarlo non solo con il giudaismo, ma con le aspirazioni religiose del mondo tutto intero".

La vasta indagine religiosa che la Weil condusse era retta, continua Bori, dalla convinzione che "il cristiano meglio istruito può imparare ancora molto sulle cose divine anche da altre tradizioni religiose, sebbene la luce interiore possa anche fargli percepire tutto attraverso la propria tradizione".

Bori afferma che la grandezza dell'esperimento che la Weil tentò non stava nella sintesi delle religioni, ma derivava da una pratica concreta di lettura pluralistica, in cui essa leggeva simultaneamente fonti antiche e moderne di Oriente e di Occidente, senza privilegiarne alcuna, e tuttavia sostenuta dalla convinzione di una identità profonda, essenziale, al di sotto della differenza linguistica.

Weil non concepiva l'identità delle diverse tradizioni, non le accostava in base a quel che esse avevano in comune, ma ne coglieva l'essenza di ciò che ciascuna di esse aveva di specifico, in quanto essa era una sola e medesima essenza".

"La Chiesa in quanto società” scriveva la Weil, “che esprime delle opinioni è un fenomeno di questo mondo, condizionato. Dio ha messo in ogni essere pensante la capacità di luce necessaria per controllare la verità di ogni pensiero”.

Analogamente, nella Lettera a un religioso affermava: "Tutto quest'inizio del Vangelo di S. Giovanni è molto oscuro”. Secondo la Weil, la parola "Era la luce vera che illumina ogni uomo che viene al mondo"contraddice assolutamente la dottrina cattolica del battesimo. Poiché da allora il Verbo abita in segreto in ogni uomo, battezzato o no; non è il battesimo che lo fa entrare nell'anima".

"Perché il cristianesimo - diceva la Weil - si incarni veramente [...] bisogna anzitutto riconoscere che storicamente la nostra civiltà procede da un'ispirazione religiosa che, benché cronologicamente precristiana, era cristiana nella sua essenza. La Sapienza di Dio deve essere considerata come la fonte unica di ogni luce quaggiù, anche dei lumi così deboli che rischiarano le cose di questo mondo".

La Weil insisteva soprattutto sulla necessità di un cristianesimo in cui la verità (e la veracità) non fossero subordinati all'adesione religiosa, ma fossero essi stessi il principio normativo. "Non c'è il punto di vista cristiano e gli altri, ma la verità e l'errore". E poi: "Non: ciò che non è cristiano è falso, ma: tutto ciò che è vero è cristiano" .

Tolstoj, citando Coleridge, diceva invece: "Chi comincia con l'amare il cristianesimo più della verità, amerà poi la sua setta o chiesa del cristianesimo e finirà con l'amare se stesso (la propria tranquillità) più di ogni altra cosa" (si veda per esempio la sua Risposta al Sinodo ). Un testo che ci riporta infine di nuovo a Platone, al famoso "amico di Socrate, ma più ancora della verità" che nella sua forma originaria si trova in Fedro 91B-C, Socrate dice: "...io ricomincio il mio ragionamento. E se voi mi date retta, vi preoccuperete poco di Socrate e molto più della verità. E se vi sembrerà che io dica il vero, mi darete ragione, altrimenti dovrete opporvi con ogni vostro argomento".

Quando Weil, nella Lettera a un religioso, parlava di un "totalitarismo della fede", per cui "l'intelligenza deve essere imbavagliata", non intendeva, secondo Bori, lanciare uno dei tanti attacchi all'oscurantismo ecclesiastico, come molta parte del modernismo cattolico; poichè il seguito del passo rivelava ben altro: "...Invece, "la metafora del "velo" applicata dai mistici permette loro di uscire da un tale soffocamento. Essi accettano l'insegnamento della Chiesa, non come se fosse la verità, ma come qualcosa dietro a cui si trova la verità. E' come se sotto stesso nome di cristianesimo ci fossero due religioni distinte, quella dei mistici e l'altra" .

Isaac Penington (1616–1679) fu uno dei primi membri della Religious Society of Friends (Quaccheri) in Inghilterra, scriveva: "Ogni verità è ombra, eccetto l'ultima, la suprema; eppure ogni verità è vera nel suo genere. E' sostanza al suo luogo, sebbene sia ombra altrove... e l'ombra è ombra vera, come la sostanza è sostanza vera".

L'universalismo della Weil, prosegue Bori, sarà l'universalismo di chi aderendo alla propria tradizione e alla luce che ne trae, afferma con pari forza - ed è questa la discriminante decisiva - che nelle altre tradizioni, in altri termini, in altre lingue, in altre figure, è presente la stessa luce.

Weil affermava: "Viviamo - diceva - in un'epoca del tutto senza precedenti: nella situazione presente l'universalità, che poteva altrimenti essere implicita, deve ora essere pienamente esplicita. Essa deve impregnare il linguaggio e tutta la maniera d'essere" .

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