DECREAZIONE IN SIMONE WEILL
Secondo Simone Weil, la creazione è una «follia» di Dio. Egli, per darci spazio, ha rinunciato a se stesso, limitandosi tanto da privarsi di una parte dell'essere: «Ha potuto creare solo nascondendosi. Altrimenti ci sarebbe stato egli solo».
Dio, come uno schiavo, si è incatenato alle leggi di necessità, che gli impediscono di intervenire nel mondo. Il mondo è quindi dominato dalla forza, e la cultura stessa è fondata sulla forza; questa forza è la materia, l'orrore senza nome che tutto schiaccia.
L'oggettività mostruosa del lavoro di fabbrica è una forma moderna ed estrema delle leggi meccaniche dell'universo, come la guerra e la malattia, sulle quali Dio non interviene.
La sua concezione pessimista della Genesi – che associa la caduta dell'uomo alla creazione, piuttosto che a un peccato originale da questi liberamente commesso, come a intendere la creazione stessa alla stregua di una caduta – è peraltro influenzata dal frammento di Anassimandro, che vede nell'ápeiron (ἄπειρον) l'origine degli esseri, ma anche la loro necessaria distruzione, in quanto ogni nascita deve pagare il prezzo dell'ingiustizia che inevitabilmente produce.
Riprendendo le teorie di Marcione, la Weil non ammette che l'autorità in nome della quale il popolo d'Israele, secondo l'Antico Testamento, si sentì legittimato a compiere stermini, possa essere riconducibile al vero Dio e che, anzi, «l'avere scambiato Dio per l'autore di un tale comandamento sia stato un errore incomparabilmente più grave delle forme peggiori di politeismo e di idolatria».
La mistica ritiene, oltretutto, che le promesse rivolte a Israele dal Dio veterotestamentario siano «le stesse che», nelle Tentazioni, «il demonio ha fatto a Cristo: "Ti donerò tutti questi regni..."».
La Weil ritiene che la verità definitiva possa esserle rivelata, appunto, solo in «una delle forme estreme della sventura presente».
«Per pensare la sventura è necessario portarla nella carne, profondamente conficcata, come un chiodo, e portarla a lungo, affinché il pensiero abbia il tempo di temprarsi abbastanza per guardarla. [...] Grazie a questa immobilità il granello infinitesimale d'amore divino gettato nell'anima può crescere a piacimento e portare frutti nell'attesa [...]. Felici coloro per i quali la sventura entrata nella loro carne è la sventura del mondo stesso nella loro epoca»
Di fronte al dramma delle creature Dio tace, e il suo silenzio, colmo di significati, è la sua unica parola, tanto da spingere la Weil a preferire «la sua assenza alla presenza di chiunque altro». Ma nell'incarnazione e nell'abbandono di Cristo sulla croce, Dio stesso ha sofferto la condizione tragica dell'uomo: “Dio ha dovuto incarnarsi e soffrire, per non essere inferiore all'uomo” e “Cristo è il giusto disprezzato, flagellato, abbandonato anche dagli dei”.
Nello strazio di Gesù, che grida “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” la Weil individua “la vera prova che il cristianesimo è qualcosa di divino”.
Difatti, se l'anima emette quel grido e ancora non smette di amare, essa può trascendere la sventura, la gioia e la sofferenza, per accedere all'amore di Dio, giacché nel profondo della sventura splende la misericordia divina.
È la medesima «intuizione precristiana» espressa dall'autore dell'Iliade, che, descrivendo la guerra e con essa un terrificante assetto della realtà, «ha amato abbastanza Dio per avere questa capacità. È questo infatti il significato implicito del poema e l'unica sorgente della sua bellezza; ma non è stato affatto capito».
La materia e la necessità, la gravità e la pesantezza (pesanteur), sono opera di Dio, dunque l'ordine della natura merita di essere amato per la sua armonica obbedienza a Dio:
«Imitare la bellezza del creato, adeguarsi all'assenza di finalità, di intenzioni, di discriminazione, significa rinunciare alle nostre intenzioni, alla nostra volontà. Essere perfettamente obbedienti significa essere perfetti come è perfetto il nostro padre celeste.»
Per ricongiungersi a Dio, l'uomo è chiamato, a milioni d'anni dalla creazione, a compiere una nuova «follia»: immolarsi e accettare la propria sventura sino in fondo, affinché Dio possa donargli «la pienezza dell'essere».
Accettare significa trasformare, trasfigurare la sofferenza in sacrificio che redime, nell'ammissione che «la nostra vita è impossibile [...]. Siccome siamo creature siamo contraddizione; perché siamo Dio e, al tempo stesso, infinitamente altro da Dio». La gratitudine, la compassione, l'amicizia, l'amore per la bellezza del creato, sono sentimenti sovrannaturali, «follie» protese a Dio; poiché l'uomo è venuto al mondo unicamente per consentire a rinnegare se stesso e cedere il passo all'amore di Dio, che è amore di Dio per Dio medesimo, perché «Dio solo è capace di amare Dio». Per tale ragione Cristo ha sentenziato che dobbiamo rinunciare a noi stessi: «Dio si è negato in nostro favore, per offrirci la possibilità di rinnegarci per lui».
La nozione di «decreazione» (décréation) – che sembra avere come fonte la Cabala, (sconosciuta però alla Weil) risulta centrale nella riflessione più matura della pensatrice, che si apre alla prospettiva di un volontario annullamento dell'io e del sé personale, pur senza un'abdicazione al «noi» collettivistico:
«La perfezione è impersonale [...] Tutto lo sforzo dei mistici è sempre stato volto a ottenere che non ci fosse più nella loro anima nessuna parte che dicesse "io". Ma la parte dell'anima che dice "noi" è ancora infinitamente più pericolosa.»; in quanto l'accesso alla verità, come la perfezione, è inattuabile attraverso il «noi».