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  • Massimo Mannarelli

L'IMPORTANZA DEL SILENZIO NEL TEMPO "CHIASSOSO" DELLA PANDEMIA


Il profeta Isaia ha scritto: “Nel silenzio e nella speranza risiederà la vostra forza” (Is 30, 15). Il Silenzio ci rende attenti a noi stessi, apre il nostro cuore alla voce di Dio, ci dispone ad accogliere i suoi doni che dissolvono l’amarezza del nostro animo, ci rende a poco a poco capaci di parlare e di tacere, di perdonare, di costruire. Tutti doni assolutamente necessari se vogliamo che l’umanesimo torni ad essere l’ossatura profonda dei nostri popoli. La nostra quotidianità è accompagnata continuamente da rumori e immagini sempre più assordanti e numerose. Nel tentativo di vivere lontani dal silenzio abbiamo finito per creare una società dominata dall’inquinamento acustico, rumore assordante, non solo esteriore, ma anche interiore, i cui effetti si riflettono negativamente sulla persona, rendendola spiritualmente vuota e superficiale. A cominciare dall'influsso dei mezzi di comunicazione “social” che sono diventati lo strumento più potente di formazione e di socializzazione degli individui. L'invasione dell'informazione soffoca gli individui e la rapidità con cui si succedono le notizie impedisce qualsiasi riflessione duratura. Soprattutto in questo periodo di "austerity" viviamo nella sovrasaturazione delle informazioni, dei reportage e della comunicazione "monolitica ed ossessiva". Il nostro silenzio non nasce dal comando “Taci!”, ma dalla parola “Ascolta!”. Il monaco Giovanni Cassiano (360-435) scriveva: “Quali che siano le offese che lo colpiscono, il monaco conserverà la pace; non solo sulle labbra, ma nel fondo del cuore. Se si sente anche minimamente turbato rimanga in silenzio e osservi diligentemente quanto dice il salmista: custodirò le mie vie per non peccare con la mia lingua (Sal 38)”. Abbiamo dimenticato sempre più la vita interiore, vivendo senza uno scopo e senza un significato spirituale, sempre più in balia di ogni genere di impressioni passeggere che si succedono senza sosta grazie anche all'iperconnessione; tutto ciò in contrasto con la massima agostiniana «Non uscire da te stesso; dentro di te abita la verità». L'ideale più diffuso è di vivere fuori di se stessi. Non solo nelle metropoli, il rumore è diventato parte integrante della vita moderna, sempre più lontana dall'ambiente sereno della natura (natura ormai viva solo nei romanzi di un tempo). Poco alla volta il rumore si è impadronito delle strade e delle case, degli ambienti, ma anche delle menti e dei cuori. Viviamo in un tempo di sudditanza al rumore, dove la superficialità che regna non sopporta il silenzio. Il rumore interiore teme di dover ascoltare il proprio vuoto, un vuoto che sarebbe capace di riempire il tutto che siamo e che ci circonda, ma con modalità che si rivolgono verso l'interno. In questo periodo di austerità impostaci dalla diffusione di un virus, le persone non vogliono relazionarsi con il loro silenzio interiore, ma neppure accettare il silenzio esteriore. L'usanza dell'applauso ai funerali è frutto della spettacolarizzazione della vita e della morte in stile reality o dell’incapacità di reggere il silenzio o della fuga di fronte all’angoscia per la morte; tutto ciò rientra in quello che si può definire "scadimento del sacro", un processo mediatico-occidentale, accettato anche da un cattolicesimo sempre più moderno e relativista; atteggiamento questo totalmente impensabile in Oriente e non solo. Eppure l'usanza del periodo di lutto è viva ancora in molte culture dove, alla morte di una persona cara, per un periodo (prescritto dalla cultura o religione di riferimento), non si ascolta musica, per rispetto alla persona scomparsa e non solo. Gli Hrvatsko Roma, con i quali ho vissuto, seguono ancora un’antica tradizione: alla morte di una persona cara bruciano la roulotte e tutto ciò che gli apparteneva in vita, osservano un periodo di lutto molto lungo in cui è vietato pronunciare il nome dell’estinto; alcuni poi non si tagliano la barba per trenta giorni (questa usanza è tassativa tra i rom di religione ortodossa). Infine é diffuso tuttora il rito della “ libagione” che si compie lasciando cadere al suolo alcune gocce di bevanda, che può essere caffè o un alcolico. L'esigenza di rumore collettivo che si dà appuntamento ogni sera sui balconi italiani (con bandiere arcobaleno e tricolori) per esorcizzare questo tempo, è troppo presa da se stessa e dalla propria esigenza di ritornare, quanto prima, al chiasso, per poter rispettare un momento che richiederebbe raccoglimento, riflessione e silenzio. Se John Lennon diceva "Andrà tutto bene alla fine. E se non va bene, non è la fine"; oggi non possiamo dire “andrà tutto bene!". Anche se l'intenzione è quella di indurre positività, coraggio, sostenere chi combatte quotidianamente contro questa pandemia, rimane il fatto che sono morte migliaia di persone di troppo. Morte nella solitudine. Persone che non potranno avere neppure esequie degne del loro vissuto, degne dell'affetto di chi le ha circondate in vita. A ciò si aggiunge l'impatto psicologico dell’isolamento che può portare a sintomi psicologici come: disturbi emotivi, depressione, stress, disturbi dell’umore, irritabilità, insonnia e segnali di disturbi da stress post-traumatico. Diventa, quindi, necessario accettare il "qui ed ora" come opportunità per ripensare il nostro rapporto con il tutto e si compia un'inevitabile viaggio verso l'interno. Ignazio di Loyola scriveva "Si celebrano meglio i riti esterni e si pronunciano parole in una lingua comprensibile, ma a volte tutto sembra avvenire fuori delle persone. Si canta con le labbra, ma il cuore rimane assente". Questa "clausura dorata" in cui viviamo, fatta di possibilità di connessione continua (collegamento continuo alla rete, ma anche televisioni satellitari) e della gamma di possibilità che essa offre e quant'altro diventa una "solitudine inesistente", dove si sente il bisogno di rimanere fuori di sé, di essere trasportati, di sentirsi sempre immersi in un ambiente stimolante e inebriante, con la coscienza piacevolmente anestetizzata; in tutto ciò è significativo il fenomeno dell'esplosione continua della musica, come se il silenzio significasse di per sè "morte". Nietzsche nel "Così parlo Zarathustra" scriveva : «Oh solitudine! Oh solitudine della mia dimora! Troppo a lungo vissi quale selvaggio in paese selvaggio, e ne ritorno a te in lagrime! Accennami pure minacciosa col dito, come sogliono fare le madri; sorridimi, come le madri sanno sorridere; dimmi pure: «E chi era colui, che un giorno come un uragano fuggì lontano da me? — e che involandosi esclamò: troppo a lungo io indugiai nella solitudine, e perciò disimparai a tacere? Ciò — l’hai tu ora appreso?” Niezsche accennava già a questa dimensione "senza profondità", dove il rumore dissolve l'interiorità; la superficialità l'annulla. L'individuo entra in un processo di disinteriorizzazione e di banalizzazione. La persona senza silenzio vive al di fuori, alla corteccia di se stesso. Tutta la sua vita si esteriorizza. Senza contatto con l'essenza del proprio sé, vincolato a tutto questo mondo esterno in cui è immerso, l'individuo resiste alla profondità, non è capace di addentrarsi nel proprio mondo interiore. Preferisce continuare a vivere una esistenza priva di trascendenza in cui l'importante è divertirsi, continuare a stare immerso nella schiuma delle apparenze, funzionare senza anima. Lo diceva già a suo tempo Paolo VI: «Noi uomini moderni siamo troppo estroversi, viviamo fuori della nostra casa, e abbiamo persino perduto la chiave per potervi rientrare». Ma soprattutto l'uomo dimostra sempre più di essere divenuto incapace di volere, di essere libero, di giudicare da sé, di cambiare il proprio stile. L'uomo pieno di rumore e di superficialità non vuole e non può conoscere direttamente se stesso. Glielo impedisce un mondo sovrapposto di immagini, rumori, occupazioni, contatti, impressioni e informazioni continue. L'individuo abdica alla propria realtà autentica: non vuole avere orecchio per ascoltare il proprio mondo interiore e forse non se ne rende nemmeno conto. Tale uomo superficiale e immerso nel rumore non può comunicare con gli altri a partire dalla propria verità più essenziale. Rivolto verso l'esterno, vive paradossalmente chiuso nel proprio mondo, in una condizione che qualcuno ha chiamato "egocentrismo estroverso". Chi vive interiormente stordito da ogni genere di rumori e in balia a mille impressioni passeggere, senza mai fermarsi davanti all'essenziale, difficilmente incontra Dio e tanto meno se stesso. Ma non sono pochi gli uomini e le donne che cominciano a sentirsi insoddisfatti. Risulta loro difficile vivere senza uno scopo e un significato profondo. Ci vuole qualcosa di più, un soffio nuovo, un'esperienza diversa che salvi dal vuoto, dalla delusione e dall'assurdo. Il silenzio non è solo silenzio esteriore. Non è insonorizzazione di uno spazio, controllo dei rumori molesti. Non è nemmeno una tecnica terapeutica, una vita tranquilla o un contatto sereno con la natura. È prima di tutto silenzio da soli davanti al mistero della Vita. Un mettersi in contatto con le profondità del proprio essere, un tacere davanti all'immensità del Tutto. Il silenzio ci insegna che esso non è un far tacere i rumori e le sollecitazioni che vengono dal di fuori, ma piuttosto un far tacere il rumore del nostro io con le sue ambizioni, paure, forme di orgoglio e autocompiacenze, introducendo nella cultura attuale una rottura che permette di vivere l'esperienza diversa al di là di utilità, pragmatismo, seduzione, mode o consumismo. Il silenzio è chiamato oggi a mostrare di essere capace di ricostruire la persona e farla vivere in maniera più degna e umana. La società moderna ha bisogno di vedere che è possibile trovare un fondamento stabile e un significato ultimo all'esistenza, che è possibile guarire dal vuoto e dalla frivolezza, dalla separazione e dalla solitudine interiore. Sant'Agostino scriveva: «Perché ti piace tanto parlare e così poco ascoltare?… Colui che insegna davvero, sta dentro; al contrario, quando tu insegni, esci da te stesso e te ne esci fuori. Ascolta prima colui che parla dentro e, dal di dentro, poi parla a chi sta fuori».

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