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  • Massimo Mannarelli

EVOLA, PREVEGGENZA E APOLITIA

“L’apolitia è la distanza interiore irrevocabile da questa società e dai suoi valori; è il non accettare di essere legati ad essa per un qualche vincolo spirituale o morale. Ciò restando fermo, con un diverso spirito potranno anche essere esercitate le attività che in altri presuppongono invece tali vincoli”

(Julius Evola)

Riccardo Paradisi, nel suo saggio "Apolitia" scrive: “Nel 1961 era dunque ormai chiaro che Evola indicava a chi lo aveva seguito fino a quel punto un orizzonte diverso da quello proposto nell’opuscolo “Orientamenti” (1950) e nel successivo “Gli uomini e le rovine” (1953). L’Evola di “Cavalcare la tigre” è un pensatore esistenziale, impolitico, che propone un anarchismo di destra; è l’Evola che, malgrado una vocazione interventista, invita le forze a disposizione ad un riorientamento esistenziale, ad una verifica interiore, proponendo l’apolitia, il distacco, la distanza dall’azione politica concreta. E’ ciò malgrado una spiccata tendenza all’azione che lo aveva portato fino a quel momento ad una partecipazione attiva nel dominio politico. La radice indoeuropea di politikòs è, del resto, la stessa di polis e di polemos. Schmitt non dice una cosa diversa quando, parafrasando Von Clausewitz, afferma che la politica è la continuazione della guerra con altri strumenti. Evola però prende atto, all’indomani del dopoguerra, che il mondo è disseminato di rovine non solo materiali, ma anche e soprattutto morali”.

Evola, infatti, scrive: “Si è in un clima di generale anestesia morale, di profondo disorientamento (…) il cedimento del carattere e di ogni vera dignità, il marasma ideologico, la prevalenza dei più bassi interessi, il vivere alla giornata stanno a caratterizzare, in genere, l’uomo del dopoguerra.” (“Orientamenti”, Ediz. “Settimo Sigillo”, Roma 1987).

Fin dagli anni Sessanta Evola va dunque oltre l’attivismo ‘politico’, al fare politica sulla base di quelle che potevano definirsi le passioni e le ideologie all’epoca dominanti, mentre l’attivismo che propone è differenziato, fine a sé stesso, distaccato da qualsiasi pulsione d’ordine.

L’apolitia per il Terzo Millennio è quella del completo disinteresse per il risultato, del fare ciò che dev’essere fatto, senza alcun trasporto e senza alcun coinvolgimento d’ordine emotivo.

Con i suoi termini, Evola anticipa l'avvento di una democrazia, come quella attuale, fondata sempre più sull'ideologia emotiva, di una classe politica (se di politica si può parlare) impreparata ed improvvisata, che si può riassumere con "siamo noi al posto loro", sempre più presa a rincorrere l'umore dell'elettore creando reciproche sudditanze, invece di assumersi la responsabilità di fare scelte chiare per il bene del "qui ed ora", in un contesto dove la de-responsabilizzazione è sempre più in voga, non solo quella del "politicante" di turno, ma anche del cittadino ancora incapace di distinguere concetti come disobbedienza e indisciplinatezza, capendo che la prima esiste quando sussiste una disciplina morale, etica e perfino interiore che compie un gesto di rivolta sorretta da ragioni "etico-morali" e senso di responsabilità rispetto alla propria azione, mentre nel secondo caso si osserva chi abitualmente o occasionalmente si mostra indisciplinato verso ogni forma di bene comune, mettendo in atto comportamenti irresponsabili, come nei giorni nostri, nei confronti della vita e salute altrui.

L’individuo al quale il filosofo della Tradizione si rivolge è un tipo umano completamente distinto dalla massificazione dominante al quale dà il nome di Uomo Differenziato.

Nell’opera di Evola si sono registrati gli autentici cataclismi epocali che sono rappresentati dai due conflitti mondiali: sono pietre miliari entrambi di svolte che hanno sconvolto equilibri storici ritenuti indistruttibili, consegnando un’umanità frastornata, confusa, dubbiosa sul proprio futuro. Uomini lacerati da grandi dubbi esistenziali o tormentati dall’immane carnaio dei popoli frutto sciagurato delle conquiste, solo l’altro ieri, tanto pomposamente celebrate della scienza e della tecnica e delle loro applicazioni belliche così disumane e scoraggianti.

In “Cavalcare la tigre” Julius Evola prova a ridisegnare un’identità e ricostruire un volto al tipo umano differenziato. Un individuo che dovrà essere il più sprezzante, il più refrattario ed il più alieno possibile rispetto alle sirene della modernità in quanto si prepara ad affrontare un’epoca di autentica dissoluzione dominata dall’emersione di stati emotivi caotici, dall’affioramento di vere e proprie manifestazioni anti-tradizionali di natura infera, demonica, sovversiva.

Già dal sottotitolo utilizzato nella sua opera del 1961 “orientamenti esistenziali per un’epoca di dissoluzione” appare evidente ad Evola la ciclopica sfida che attende quei pochi che vorranno situarsi su quell’ipotetico e quasi immaginario ‘fronte della tradizione’.

Assieme a “Gli uomini e le rovine” il volume di Evola intende anche illustrare quale potrà essere, nel marasma generale della decadenza occidentale e universale, la divisa interiore di quanti intenderanno seguire quella “via della mano sinistra” (o “via secca”) già conosciuta dalle principali dottrine tradizionali dell’Oriente ed indicante una via intellettuale, interiore e personale di distacco rispetto alle vicissitudini del mondo contemporaneo in declino. Formule che troveranno conforto nei due libri dedicati da Evola alla sapienza orientale (“Lo yoga come potenza” e “La dottrina del risveglio”).

Paradisi nell'introduzione del suo saggio scrive: “Dunque già nel 1950 Evola sottolinea che il problema principale da porre non è quello sociale, economico o più in generale politico, ma è quello umano e spirituale poiché “la misura di ciò che può essere ancora salvato dipende dall’esistenza o meno di uomini che ci siano dinanzi non per predicare formule, ma per essere esempi (…) per ridestare forme diverse di sensibilità e di interesse”.”

La nuova ‘sensibilità’ che Evola sembra indicare agli uomini differenziati sarà quella di una decisa opposizione a tutto ciò che rappresenta la residuale civiltà occidentale giunta al capolinea ed alla cultura borghese che ha impresso alla modernità; una cultura che investirà inevitabilmente il resto del pianeta per le sue caratteristiche espansionistiche-dilatatorie. Siamo in pieno Kali Yuga avverte Evola ed occorre un ri-orientamento interiore per affrontare il punto-zero dei valori espresso da questa civiltà suicida che tutto contamina e distrugge.

L’Evola di questi saggi ha la precisa percezione di vivere nel mondo degli “altri”, in piena epoca crepuscolare, nella decadenza di un ciclo, in quell’epoca di cui aveva parlato Friedrich Nietzsche fin dalla fine dell’Ottocento dove a dominare è il nichilismo freddo, gelido, insensibile alla catastrofe circostante, indifferente alle rovine, assolutamente glaciale nella sua dimensione di deus ex machina del crepuscolo dell’umanità – ; laddove “Dio è morto” senza che all’orizzonte si intraveda altri valori, altri sistemi, altre idee del mondo valide o quantomeno adatte a prenderne il posto.

Così l’Evola che prova a dare indicazioni esistenziali per questa età oscura incipiente è quello che indica, con un detto estremo-orientale (il ‘Cavalcare la tigre’), la “via” per restare in piedi nel mondo in rovina, per non farsi travolgere e annientare da ciò che sarebbe comunque impossibile riuscire a controllare. ‘Cavalcando la tigre’ appunto è ancora possibile, forse, resistere alla scombussolamento generale, evitandone gli effetti più negativi ipotizzando, quale estrema ratio, la possibilità di assumere atteggiamenti e comportamenti tra i più estremi ed irreversibili delle dinamiche dissolutive agenti nel presente, cercando di assecondarne e disinteressandosi degli effetti prodotti.

A questo modo sarà possibile l’agire nel senso di raggiungere una sorta di liberazione anziché, come avverrà per la stragrande maggioranza dei contemporanei, in quello di una distruzione spirituale.

Come scriverà ne “Gli Uomini e le Rovine” questa nuova ‘divisa interiore’ che dovranno adottare tutti gli uomini differenziati potrebbe rappresentare : l’elemento decisivo affinché (…) possa prendere forma un nuovo ordinamento di tipo organico è un fatto metafisico. (…) Si ripresenta cioè il problema di un essenziale ricollegamento alle origini. (…) All’atto di eleggere tali idee e di votarsi alla loro realizzazione, superando il limite dell’individuo, dovrebbe potersi attribuire un potere evocatorio: quella spiritualità, quella trascendenza che, per così dire, si è ritirata dal mondo, ma che essa sola può dare un crisma alle nuove strutture, per tale via dovrebbe essere portata ad una nuova manifestazione nel mondo degli uomini e della storia.”.

Se nel 1928, per Evola, il rimedio sembra essere l’abbandono del cristianesimo da parte del fascismo per abbracciare la tradizione romana, nel 1961 il rimedio è quello di una via strettamente interiore e dell’apolitia allorché, spiega, “gli avvenimenti ultimi hanno fatto chiaramente apparire l’assoluta inanità di ogni iniziativa del genere, di ogni sforzo ricostruttivo, insieme al generale, irreversibile carattere di dissoluzione proprio a questa fine di ciclo”.

A distanza di oltre cinquant’anni da quando vennero scritte queste quantomeno ‘preveggenti’ parole, occorre meditare sullo spettacolo tristissimo nel quale si barcamena l’intera politica italiana ed europea, entrambe da molti decenni assolutamente degradatesi a mere comparse di un teatrino piuttosto assurdo rappresentato dall’evoluzione della decadenza sotto tutti i punti di vista, dell’incedere impetuoso di una crisi che non è solo di valori ma, nelle sue manifestazioni più recenti, rasenta un vero e proprio crepuscolo per il mondo occidentale inteso come una civiltà materialistica della storia che ha visto progressivamente disintegrate tutte quelle chimeriche certezze delle quali andavano fieri gli occidentali soltanto alla fine del XIX secolo: dai miti ritenuti infallibili del progresso e dello sviluppo umano fondato su una scienza e una tecnica sempre più in preda, oggi, a relativismi incontrollati per divenire consapevoli ora che non di evoluzione trattasi, quanto piuttosto di una costante involuzione che appare, nell'attuale, sempre più evidente.

A ciò si aggiunge l'idea di voler "normalizzare" (e quindi tediare) ogni cosa, al fine di creare nuove omologazioni, che spengono ogni forma di disobbedienza, intesa come pulsione antagonista, creativa e quindi vitale, un relativismo non più inteso come atteggiamento del pensiero che consideri la conoscenza come incapace di attingere una realtà oggettiva e assoluta, ma che diventa invece sempre più verità assoluta da contrapporsi ad altre verità assolute.

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