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  • Massimo Mannarelli

LA SVOLTA NEO-OTTOMANA DI ERDOGAN


Il termine neo-ottomanesimo fu introdotto alla metà degli anni Ottanta per definire le crescenti ambizioni geo-politiche della nuova Turchia, avvalorate dal recupero dell’eredità ottomana che si spinge oltre l'Eurasia per allargarsi all'Eurabia. Il neo-ottomanesimo non può essere considerata una semplice ideologia, quanto piuttosto un diverso modo di vivere e pensare la Turchia moderna richiamandosi ad un passato glorioso ed ambizioso, ritenuto per decenni scomodo e perdente, ma soprattutto sfidando la laicità con un concetto di "tradizione". Tra il 1995 e il 1997, Abdullah Gül e Recep Tayyip Erdoğan compresero l’importanza di far incontrare Islam, nazionalismo tradizionale e integrazione con l’Occidente, dando vita all'AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo). Con esso l'Islam acquisce nuovi spazi di espressione, cessando di essere rinchiuso nella sola sfera del "rito" privato ed assumendo sempre più una valenza identitaria e comunitaria; questo islam non nega il progresso, ma sperimenta se stesso professando un nuovo modo di vivere, sempre più distante da quello kemalista (modello di Ataturk), poggiandosi sull'etica islamica e sul recupero della storia, della cultura e del proprio passato ottomano a lungo rinnegato. Per anni le principali minacce all’unità nazionale erano state identificate con le rivendicazioni separatiste curde e con l’Islam politico in quanto promotore di uno Stato islamico. La progressiva riabilitazione dell’Islam nella sfera pubblica e in quella politica turca é riuscita a disinnescare gradualmente la minaccia rappresentata dall’islamismo radicale e, al tempo stesso, ha promosso una possibile, seppur improbabile, soluzione alla questione curda, rappresentata dall’idea di identità multietnica che integra, invece di assimilare come quella kemalista, le diversità etniche. Questi sviluppi hanno segnato il progressivo, seppur lento, calo di popolarità dell’esercito, accompagnato da una generale disaffezione popolare nei confronti dello stesso mito kemalista. Una disaffezione seguita da due pesanti sconfitte politiche incassate dai militari. La prima è avvenuta con l’ascesa dell'AKP al ruolo di partito di governo: il risultato più eclatante è rappresentato dall’elezione alla carica di Presidente di Abdullah Gül, primo Presidente islamico della Repubblica. La seconda si è verificata con il fallimento del “comunicato di mezzanotte” del 2007 in cui i militari sperimentarono un metodo comunicativo diverso, non più una diretta minaccia al governo, come avvenuto nel febbraio del 1997 nei confronti del governo a guida Erbakan ma, piuttosto, un invito a mobilitare l’opinione pubblica facendo un ampio uso del mezzo di comunicazione più diretto e moderno: il web. Il comunicato di mezzanotte risultò l’ultimo tentativo da parte dell’esercito di intromettersi negli affari politici ed istituzionali del Paese, segnando anche una decisiva svolta nelle politiche promosse dall’AKP che, a partire da quello stesso anno, acquisirono un carattere più marcatamente islamico. Gli effetti principali di questo mutamento di prospettiva si sono avuti in politica estera, con il progressivo allontanamento da partner storici come l’Unione Europea e Israele, e in politica interna, dove, attraverso il processo di introduzione della propria élite nei diversi apparati amministrativi statali (educazione, economia, informazione, affari religiosi), l’AKP ha potuto portare avanti la trasformazione dell’intera società civile turca. Nei suoi primi anni di governo l’AKP ha saputo utilizzare la spinta, anche popolare, all’adesione all’Unione Europea sia per fugare dubbi e timori occidentali di derive islamiche, sia per accelerare le riforme interne al Paese. Proprio le misure conosciute come “pacchetti di armonizzazione” rispetto alle norme comunitarie hanno liberalizzato ulteriormente l’economia, andando ad intaccare il controllo diretto statale e la politica, limitando ulteriormente l’influenza dei militari. Il voto elettorale in favore dell’AKP può essere letto come volontà di una parte della società turca di legittimare un nuovo attore avente mandato “implicito” di ristrutturare il confine tra Stato e società. Con l’ascesa dell’AKP, la centralità geopolitica della Turchia ha iniziato a svilupparsi definendo nuovi indirizzi in politica estera, caratterizzati da una crescente e legittima autonomia. Una dottrina, incentrata sulla retorica dell’“incontro tra civiltà”, che rientra nel più ampio e complesso quadro del neo-ottomanesimo e mira a trasformare la Turchia da Stato periferico ad attore centrale nel contesto regionale prima e in quello globale poi. A prevalere è l’idea di una Turchia in grado di mediare tra i due mondi, Occidente ed Islam, diventandone l’anello di congiunzione. Il risultato di questo neo-ottomanesimo diventa il progressivo recupero dell’eredità ottomano islamica con l’apertura alle molte minoranze etniche del Paese attraverso l’elaborazione di un concetto multi-culturale di cittadinanza che avrà inevitabili conseguenze nel rapporto con i curdi. L’AKP accentua la presenza di un forte richiamo all’identità islamica riprendendo l’ottomanismo nella sua terza fase, quella del periodo hamidiano in cui l’idea di ottomanismo venne rivestita dal Sultano Abdülhamit II, simbolismo di matrice islamica, volto a dare nuova e maggiore legittimità al proprio potere. Una scelta politica e strumentale del Sultano portò alla ripresa del titolo di Califfo, senza il carattere espansionistico tipico del panislamismo moderno, ma con l’intento di rafforzare la coesione interna all’Impero. Anche per l’AKP l’Islam può e deve essere la chiave e l’amalgama per una nuova identità sempre più sentita e condivisa dalle diverse etnie. A ciò si deve aggiungere come Davutoğlu (primo ministro della Turchia dal 2014 al 2016) ed Erdoğan , così come prima di loro Turgut Özal (fondatore e guida del Partito della Madrepatria), e lo stesso Sultano Abdülhamit II, condividessero la visione di un Islam dinamico e progressista perfettamente in grado di adattarsi ed esprimersi nella modernità. Un’idea figlia della forte influenza avuta su tutti loro dalla confraternita sufi Naqshbandiyya, di cui sia Erdoğan che Özal sono stati membri. Quella professata da Davutoğlu ed Erdoğan, quindi, non è in alcun modo un islamizzazione ma, piuttosto, una sorta di riconciliazione con l’Islam e, al tempo stesso, una correzione dell’approccio laico del Kemalismo. L'approccio in politica estera di Erdogan abbraccia l’idea neo-ottomana dell’odierna Turchia, sempre più pronta a riscoprire il proprio grande passato, facendolo diventare un carattere inconfondibile del proprio futuro. L’ottomanismo dopo un lungo letargo obbligato dalla Repubblica kemalista, sembra riemergere ora sotto una nuova e moderna elaborazione con il nome di neo-ottomanesimo. Tale politica verte sul recupero non solo dell’eredità ottomana, ma anche del peculiare rapporto con l’universo islamico turco/ottomano caratterizzato, oltre che dall’Islam ufficiale degli ulama, dalla ramificata presenza di confraternite sufi (Naqshbandiyya, per esempio) e movimenti islamici (Nurcu) considerati i custodi, durante gli anni del Kemalismo, del patrimonio culturale ottomano-islamico. Tale progetto costringe il governo turco a confrontarsi con situazioni critiche, tra cui le relazioni con Israele, deterioratesi a seguito della presa di posizione energica dello stesso Erdogan sulla questione palestinese, quelle con l'Arabia Saudita per la crescente diffidenza di alcune petrolmonarchie saudite, spaventate dall’ammirazione suscitata sulle masse arabe dalla retorica di Erdoğan. Un’altra incognita futura è rappresentata dai rapporti con l’altra potenza regionale forte e in ascesa, quell’Iran che inevitabilmente rappresenterà un ostacolo ai progetti turchi, a meno che il mondo sciita e quello di matrice sunnita ottomani non si concilino su una strategia comune grazie ad una reciproca visione di "stato tradizionale". Rimane comunque difficile poter immaginare la Turchia come modello esportabile nei Paesi mediorientali, poiché la specificità turca risiede in molteplici suoi aspetti (culturali, storici, politici, sociali) che la rendono difficilmente imitabile, compreso il carattere del tutto particolare dell’Islam turco. L’ottomanismo, rimasto a lungo in un letargo forzato durante gli anni di Ataturk, riemerge e si reinserisce gradualmente in forma più moderna nel discorso politico della Turchia odierna, in essa l’elemento religioso viene concepito come aggregante e nazionale, legando a doppio filo politica identitaria e politica estera, e proponendo un’identità turco-ottomana con più ampie aspirazioni geopolitiche. La Turchia odierna non accetta più di essere il braccio militare che deve difendere l'Europa da se stessa, ma neppure di essere un luogo di passaggio tra Occidente e mondo islamico, ma ambisce a costruire un progetto di trasformazione in Stato mediatore e anello tra due mondi. A questo si deve aggiungere la storica polarizzazione interna alla società turca tra laici e tradizionalisti islamici che il neo-ottomanesimo non ha fatto altro che accentuare ulteriormente. Sullo sfondo, infine, rimane l’ingombrante ombra dell’esercito e i timori di un suo, al momento poco probabile, nuovo intervento nella vita politica del Paese. Detto questo, la presa di coscienza da parte dell’Occidente della forza e del potenziale dell’attuale Turchia, deve aiutare a costruire nuove basi per un rapporto che sia caratterizzato da una minore diffidenza reciproca e da un maggiore dialogo. Non è da escludersi poi che la chiusura dell'Unione Europea a paesi balcanici "satelliti" come la Bosnia, Albania già vicini alla Turchia potrebbe determinare un domani una loro adesione ad un progetto neo-ottomano, a cui si potranno aggiungere realtà come il Kosovo e la parte albanese islamica della Macedonia, le minoranze turche di Cipro e le realtà caucasiche ex ottomane.

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