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  • Massimo Mannarelli

ANIMALISMO VEGANO NELLA FILOSOFIA DI TOM REGAN


Tom Regan (1938-2017) è stato professore di Filosofia all’Università Statale della Carolina del Nord divenuto famoso per i suoi tanti scritti sul tema della liberazione degli animali e sulla filosofia dei diritti degli animali.

La sua opera "The Case for Animal Rights" (1983) ha segnato un notevole passo avanti nel sostegno filosofico al movimento dei diritti degli animali, la cui discussione è stata portata da questo libro alla seria attenzione di gruppi di studiosi.

Regan scriveva "Dobbiamo renderci conto che alcune persone, sentendoci parlare di temi quali i diritti degli animali, troveranno un motivo valido per accusarci di essere assurdi. Solo le persone possono avere diritti e gli animali non sono persone. Quindi quanto più noi parliamo, seriamente, di diritti degli animali, tanto più loro penseranno che noi consideriamo gli animali stessi alla stregua di esseri umani; e poiché è assurdo pensare che animali e persone siano la stessa cosa, sarà per loro altrettanto assurdo pensare che gli animali abbiano diritti. Per molti la discussione finisce qui."

Regan aveva compreso la difficoltà di cambiare il modo di pensare di quanti sono abituati a ragionare in questo modo.

Egli sosteneva: “Qualcuno potrebbe disfarsi subito di ogni peso dicendo che la concezione dei diritti è antiscientifica e antiumana. Questa è retorica. La concezione dei diritti non è antiumana. Noi, in quanto esseri umani, abbiamo tutti il diritto primario a non essere danneggiati, un diritto che si cerca di evidenziare e difendere tramite la concezione dei diritti; ma non abbiamo nessun diritto di danneggiare altri, o di metterli in condizioni di poter essere danneggiati; al solo scopo di ridurre al minimo i rischi derivanti dalle nostre azioni, frutto di libere scelte. Tutto ciò viola i loro diritti, e nessuno ha il diritto di farlo”.

La concezione dei diritti non è nemmeno antiscientifica. Pone farmacologi e scienziati di fronte alla sfida della scienza: trovare metodi, di pubblica utilità, scientificamente validi senza dover violare i diritti degli individui. L’obiettivo primario della farmacologia dovrebbe essere quello di ridurre i rischi a cui sono soggetti quanti fanno uso di medicinali, senza danneggiare chi invece non ne fa uso. Le vere persone antiscientifiche sono quelle che dichiarano che tutto ciò non è possibile, prima ancora di cercare di trovare insieme un modo per far sì che avvenga.

Così come per gli esseri umani, anche per gli animali può essere applicata la seguente teoria: “calpestare i loro diritti non può essere giustificato facendo appello al bene comune". In altre parole, i benefici apportati ad alcuni individui hanno valore morale solo se non comportano la violazione dei diritti altrui. Secondo Regan i test effettuati per provare la tossicità di nuovi medicinali violano i diritti degli animali da laboratorio ed è moralmente irrilevante fare leva su quanto altri ne abbiano tratto beneficio. Gli animali da laboratorio non sono le nostre cavie. Noi non siamo i loro sovrani.

Regan riteneva che la scienza che danneggia continuamente gli animali allo scopo di raggiungere i propri obiettivi, è moralmente corrotta, perché ingiusta alla base, è qualcosa che nessun appello al "contratto" tra società e scienza può alterare.

Regan spingeva perché si coinvolgessero i veterinari come sensibilizzatori al tema del rispetto per gli animali.

Questi medici avrebbero dovuto, secondo il filosofo americano, sottrarre se stessi e la loro professione dai legami economici che li rapportano a certe industrie e dedicare le loro vaste conoscenze e competenze mediche allo sviluppo di progetti finalizzato al rispetto dei diritti dei loro pazienti. Mancare di dirigere le proprie abitudini in questa direzione sarebbe stato secondo lui indizio di mancanza di morale o di coraggio (o di entrambi) macchiando così per sempre l’immagine di questa venerabile professione e di quanti la praticano.

Le sofferenze provocate agli animali non possono essere giustificate semplicemente dal fatto che ci piace il sapore della loro carne e anche se gli animali venissero allevati in modo da condurre una vita più o meno piacevole e fossero macellati in maniera "umana", questo non darebbe la certezza che i loro diritti, incluso il diritto alla vita, non vengano violati.

La fame umana di carne è aumentata tanto da far mettere in atto metodi di allevamento degli animali di tipo intensivo che cercano di garantire la massima quantità di carne nel minor tempo e con la minore spesa possibile. Un numero sempre maggiore di animali è sottoposto alla durezza di questi metodi. Molti sono costretti a vivere in condizioni in cui si trovano incredibilmente ammassati gli uni agli altri. Inoltre, a causa di questi metodi, i desideri naturali di molti animali vengono spesso frustrati. In breve, sia in termini dei dolori fisici che questi animali devono provare che in termini di dolore psichico che segue alla frustrazione delle loro tendenze naturali, non può esserci alcun dubbio sul fatto che gli animali cresciuti secondo i metodi di allevamento intensivo provano un dolore non comune e immeritato. Oltre a questo, ci sono le raccapriccianti realtà della macellazione "umana" e abbiamo, a mio parere, una quantità molto intensa di sofferenza che può essere giustamente definita "enorme".

In termini più generali, quindi, mangiando carne di animali cresciuti in tali condizioni, contribuiamo all’incremento della domanda di carne che gli allevatori che utilizzano metodi intensivi cercheranno di soddisfare. Quindi, posto che è risaputo che tali metodi causano sofferenze non comuni e immeritate agli animali così allevati, chiunque compri carne prodotta con questi metodi, e lo fanno quasi tutte le persone che acquistano carne in un comune supermarket o al ristorante si ritrova casualmente implicato in una pratica che causa sofferenze non comuni e immeritate agli animali in questione. Penso che nemmeno su questo punto possano esserci dubbi.

Contrariamente alla mentalità comune, che presuppone che siano i vegetariani a dover stare sulla difensiva e faticare per dimostrare che, seppur remotamente, il loro stile di vita "eccentrico" può essere difeso razionalmente, in realtà è il non vegetariano che ha bisogno di giustificare il suo stile di vita. A dire il vero, il vegetariano, se ho ragione, può fare un’affermazione ancora più forte di questa. Perché, se l’argomento precedente era solido, egli può sostenere che, a meno che, o fino a quando, non si riuscirà a dimostrare che le sofferenze immeritate, non comuni, causate agli animali e risultanti dagli allevamenti intensivi non sono gratuite e non violano i diritti degli animali in questione, egli (il vegetariano) ha ragione di credere che, agendo in maniera errata, e mangiare carne è errato, noi contribuiamo ad incrementare i metodi di allevamento intensivo degli animali e, così facendo, le gravi sofferenze a cui inevitabilmente sono soggetti.

Le persone devono cambiare le loro convinzioni prima di cambiare le loro abitudini di vita. Un numero consistente di persone, specialmente quelle che rivestono cariche pubbliche, devono credere nel cambiamento – devono volerlo – o non avremo mai leggi per proteggere i diritti degli animali. Il processo di cambiamento è molto complicato, molto impegnativo, spossante, richiede lo sforzo di molte mani che si devono impegnare nell’educazione, nella divulgazione, nell’organizzazione politica e nelll’attivismo, fino all’atto di incollare buste e francobolli. In qualità di filosofo allenato e praticante, penso di poter dare un contributo limitato ma, come mi piace pensare, importante.




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