KINTSUGI, OSSIA L’ARTE DI AMARE LE PROPRIE CICATRICI (dedicato a Savitri)
La parola “kintsugi” si compone dei termini “oro” (金) e “aggiustare” (継ぎ). Letteralmente possiamo tradurlo con “aggiustare con l’oro” o anche “toppa dorata”.
Come forma d’arte iniziò ad evolversi nel XV secolo: una leggenda vuole che lo Shogun (il più alto titolo militare possibile) Ashikaga Yoshimasa, dopo che la sua tazza da tè preferita si ruppe, commissionò a degli artigiani di ripararla in modo che fosse ancora utilizzabile e degna della sua carica. Per riuscire nell’impresa, gli artigiani utilizzarono della lacca naturale mescolata con polvere d’oro, ottenendo un bellissimo (oltre che funzionale) risultato.
Tradizionalmente, il collante usato è la lacca urushi, che si ricava da millenni dalla pianta Rhus verniciflua. I cinesi la utilizzavano da millenni e in Giappone, nella Tomba Shimahama nella Prefettura di Fukui, sono stati rinvenuti oggetti laccati come pettini e vassoi, usati nel periodo Jomon circa 5.000 anni fa.
Il successo di questa nuova forma di artigianato prese piede molto in fretta tra le corti e i collezionisti dell’epoca: numerosi furono i casi di porcellane rotte volontariamente per fare in modo che venissero riparate tramite la tecnica del Kintsugi, alzandone il valore economico e artistico.
Ogni oggetto riparato con questa tecnica diventa unico nel suo genere. Non sarà mai possibile rompere due pezzi in maniera identica. Il risultato finale, dopo essere stato aggiustato, sarà sempre un pezzo d’arte unico al mondo.
Le tecniche sono tre:
Hibi (ひび) ossia “crepa”, dove si riparano le semplici crepe;
Kake no Kintsugi Rei (欠けの金継ぎ例), ossia “esempio di riparazione dorata (del pezzo) mancante”, in cui si crea il pezzo mancante su misura, realizzato interamente in lacca e oro;
Yobitsugi (呼び継ぎ) ossia “invito ad aggiustare/unirsi”, dove si utilizza un pezzo proveniente da un’altra porcellana molto simile ma comunque non quello originale.
Il fascino di questa tecnica va oltre il valore meramente materiale ma si trova nella sua valenza filosofica e psicologica.
Riparare è una forma di terapia psicologica molto potente, poiché trasferiamo un possibile evento negativo della nostra vita sull’oggetto rotto. Una volta aggiustato, sarà come fossimo riusciti a sistemare una piccola parte di ciò che di negativo abbiamo patito. Il Kintsugi è spesso associato alla resilienza, la capacità di rialzarsi sempre dopo una caduta.
La sofferenza (la caduta) è un moto dell’anima grazie al quale ciascuno ha la possibilità di comprendere più a fondo se stesso e di reinventarsi ridisegnando la propria esistenza. I difetti fisici invece che essere drammatizzati e camuffati in nome dell’aderenza al modello di perfezione estetica irraggiungibile vengono valorizzati in quanto elementi di fascino e di unicità.
Facendo un semplice paragone, possiamo pensare alla nostra vita come ad una tazza da tè artigianale: ognuna è unica al mondo, poiché ogni artigiano ha una mano unica. Per quanto due pezzi siano simili non saranno mai completamente identici.
Le crepe dell’oggetto rotto non vanno nascoste né mimetizzate, ma valorizzate, esattamente come le cicatrici, i difetti fisici e le ferite dell’anima che non vanno celate, ma esibite senza imbarazzo, essendo le stesse parte dell’uomo e della sua storia.
Il significato spirituale del Kintsugi sta proprio in questo aspetto: non dobbiamo nascondere le ferite che abbiamo o vergognarcene, perché se le “ripariamo” nel modo giusto, ossia superando il trauma che ci hanno lasciato e imparando da esso, diventeranno medaglie, trofei che celebrano le battaglie a cui siamo sopravvissuti.
Se siamo in grado di rialzarci, anche lentamente, ma con l’orgoglio dell’essere riusciti a superare il problema, allora l’opera sarà a tutti gli effetti una riparazione dorata degna dello Shogun.
Ogni ferita che ci portiamo dietro racconta chi siamo, da dove veniamo, cosa abbiamo sopportato fino ad oggi e come ne siamo usciti. Avremo una splendente cicatrice dorata chiusa a regola d’arte.
Dalla lenta riparazione conseguente a una rottura, può rinascere una forma di bellezza e di perfezione superiore, lasciandoci così intendere che i segni impressi dalla vita sulla nostra pelle e nella nostra mente hanno un valore e un significato, e che è da essi, dalla loro accettazione, dalla loro rimarginazione, che prendono il via i processi di rigenerazione e di rinascita interiore che ci rendono delle persone nuove e risolte.
Nell’oggetto riparato si vede esaltata questa bellezza effimera poiché si ricompone in maniera sempre nuova e sempre più bella.
Esiste sempre nella cultura giapponese una visione che si origina dal buddismo chiamata Wabi-sabi nella quale il Kintsugi affonda i propri principi e che si fonda sull’accoglimento della transitorietà delle cose e sulla celebrazione della bellezza della caducità e dell'imperfezione.
Wabi-sabi costituisce una visione estetica e filosofica fondata, come anticipato, sulla dottrina buddhista dell’anitya (impermanenza) e, quindi, sulla transitorietà delle cose.
L’espressione deriva da due caratteri 侘 (wabi) e 寂 (sabi):
Wabi si riferiva originariamente alla solitudine della vita nella natura, lontana dalla società;
Sabi significava “freddo”, “povero”, “appassito”.
Verso il XIV secolo questi significati iniziarono a mutare, assumendo connotazioni più positive. Wabi finisce per identificare la semplicità rustica, la freschezza o il silenzio, e può essere applicata sia a oggetti naturali che artificiali, o anche eleganza non ostentata. Può anche riferirsi a stranezze o difetti generatisi nel processo di costruzione, che aggiungono unicità ed eleganza all’oggetto. Sabi è la bellezza o la serenità che accompagna l’avanzare dell’età, quando la vita degli oggetti e la sua impermanenza sono evidenziati dalla patina e dall’usura o da eventuali visibili riparazioni. Sia wabi che sabi suggeriscono sentimenti di desolazione e solitudine.
Wabi Sabi fa riferimento alla conoscenza di tre semplici realtà:
niente è completo;
niente è perfetto;
niente dura per sempre.
Il danno non si può cancellare e piangere “sul latte versato” non serve nulla. Bisogna invece raccogliere i cocci e rimboccarci le maniche ma è fondamentale in primis accettare ciò che è stato.
In giapponese esiste una parola molto adatta a questo concetto che però non ha una traduzione precisa in italiano: shouganai (しょうがない). Può essere utilizzata in vari modi, ma uno dei significati più interessanti è quello di accettare qualcosa che, per quanto faticoso o noioso, non possiamo evitare (molto simile al concetto yogico di santosha).
Accettare il “danno” per quello che è, risolverlo nel miglior modo possibile e soprattutto, accoglierlo come una preziosa lezione di vita che renderà le nostre crepe ancora più preziose.
Wabi sabi ci insegna a semplificare e prioritizzare le cose “giuste”, senza essere troppo duri con noi stessi nella fase di cambiamento. Ci invita ad accettare il fallimento come un momento di passaggio. Ci chiede di accettare il cambiamento. Poiché tutto è impermanente dobbiamo essere pronti al cambiamento, anche di quanto appaia stabile. Tanto più ci attaccheremo a quella stabilità, tanto meno saremo in grado di adattarci al cambiamento e fronteggiare le conseguenze di questo.