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  • Sibilla Mannarelli

L’ARUGAMAMA DI SHOMA MORITA


Shoma Morita è stato uno psichiatra giapponese, direttore del dipartimento di psichiatria della scuola universitaria di medicina di Tokyo. Nato nel 1874, contemporaneo di Sigmund Freud, Carl Jung, e altri padri della moderna psicologia si è caratterizzato per un approccio fortemente influenzato dal buddhismo zen.

Morita è stato molto interessato al Buddismo Zen e ha avuto alcune esperienze nel Buddismo Zen Rinzai sotto il Maestro Zen Shaku Soen, l’insegnante di D. T. Suzuki. Il metodo di Morita è stato inizialmente sviluppato come cura per una forma di psiconevrosi d’ansia e negli ultimi decenni l’applicazione di questa terapia si è molto ampliata nella cura della depressione e di altri disturbi mentali

Secondo Shoma Morita i sentimenti e le emozioni sono una risposta naturale agli eventi della vita e non bisognerebbe fare assolutamente niente per renderli diversi da come sono.

Le emozioni sono incontrollabili come eventi meteorologici che accadono nella nostra mente e quindi l'unico atteggiamento saggio da assumere è farle fluire accettandole così come sono. Lo sforzo di provare a cambiare quello che si prova potrebbe essere controproducente e portare a stare sempre peggio.

Ecco le parole di Morita: “Ostinarsi a volere controllare l'io emotivo con tentativi di manipolazione è come provare a decidere il numero uscente in un lancio di dati o a far risalire le acque del fiume Kamo verso la sorgente. Di sicuro finiamo per aggravare l'agonia e cadere vittime di un dolore insopportabile perché non siamo riusciti a manipolare le nostre emozioni”.

L’approccio di Morita si poggia su quattro elementi fondamentali:

  1. Accettazione è il cuore dell’azione.

Quando ci si trova in condizioni sgradevoli si cerca di manipolarle in modo di trovarsi a proprio agio. La terapia Morita ha come suo primo pilastro il concetto dell’arugamama, parola da lui stesso coniata che significa “prendere atto che le cose sono come sono”.

Arugamama è un concetto in netto contrasto con quelli di evitamento, rassegnazione e lamentela. Riconoscere l’emozione che si prova e accettarla ci permette di viverla e di crescere all’interno dell’emozione, per superarla in modo sano e concreto.

Arugamama significa ad esempio che quando abbiamo caldo, dobbiamo permettere a noi stessi di avere caldo, quando siamo ansiosi, dobbiamo permettere a noi stessi di provare ansia, quando siamo depressi, dobbiamo consentire a noi stessi di sentirci depressi e disperati. Non dobbiamo evitare quella esperienza emotiva, ma contemporaneamente dobbiamo continuare a fare ciò che per noi è importante. L’arugamama è l’arte della non resistenza: non è necessario sgominare o sopraffare la depressione. La accettiamo senza provare a scappare e la invitiamo a stare con noi mentre prepariamo la cena, facciamo la spesa o portiamo a spasso il cane. L’ansia è al nostro fianco mentre facciamo la nostra presentazione davanti ad una sala affollata. Infatti è solo accettando la situazione, senza fuggire o lamentarci, che possiamo andare avanti e vivere in modo significativo. L’accettazione risulta quindi fondamentale per l’azione.

  1. I pensieri e i sentimenti sono incontrollabili.

L’esperienza interiore (pensieri sentimenti) è fondamentalmente incontrollabile. Non possiamo pensare di provare un’emozione volontariamente, poiché per sua stessa natura è innata. Di conseguenza, accettarla anziché lottare contro la portata dell’emozione ci permetterà di crescere e di vivere in modo più sereno all’interno, ad esempio, del gruppo di appartenenza.

  1. Azione è intenzione.

E’ una puntualizzazione importante da fare, perché molto spesso abbiamo intenzione di fare una cosa, ma quand’è il momento non possiamo mai all’azione. E’ fondamentale distinguere tra pensieri e azioni ovvero tra il pensare che cosa si desidera e l’agito vero e proprio, per concentrarsi principalmente sul secondo. Rendersi conto della differenza tra orientamento e azione è un aspetto che rende maggiormente efficaci alcuni percorsi formativi.

  1. Cosa ti spinge davvero alla relazione?

Impegnarsi a trovare quello che è il reale propulsore, la volontà all’azione. Come sappiamo non esistono pillole magiche che ci aiutano ad agire in base ai pensieri, ma la costruzione di obiettivi raggiungibili e misurabili e le giuste ricompense per il lavoro effettuato rappresentano senza dubbio una motivazione all’azione. Andiamo avanti a perseguire i nostri obiettivi, perché sono questi a dare significato alla nostra vita. “Niente resistenza, niente lamentele, niente via di fuga”.

La terapia proposta da questo approccio non sta nel rendere migliori le emozioni... sta nel tenerci le emozioni esattamente per come sono e darci comunque una mossa per portare la nostra vita nella direzione che desideriamo.

In ambito psichiatrico, la terapia Morita è utilizzata soprattutto in Cina e Giappone, con diffusione modesta in Occidente, e ha mostrato risultati incoraggianti soprattutto in trattamenti con pazienti schizofrenici, schizotipici e affetti da disturbi d’ansia.

Il lavoro proposto al paziente consiste in quattro fasi per una durata variabile fino ad un mese:

  1. il malato viene tenuto a riposo a letto, totalmente isolato con la proibizione di parlare, leggere, scrivere, fumare e cantare.

  2. una seconda fase, della durata di una o due settimane, durante la quale, permanendo l'isolamento e la proibizione di parlare, il malato potrà fare un lavoro leggero (come il giardinaggio) e dovrà leggere due volte al giorno dei passi di un classico (come il Kojiki dell'VIII secolo). In questo periodo il malato dovrà tenere anche un diario che verrà letto dal medico. Vi sono tre ore di insegnamento al giorno, durante le quali il malato si limita ad ascoltare, senza interloquire, ciò che dice il medico.

  3. la terza fase è caratterizzata dall'imposizione al malato di lavori pesanti (taglio della legna, trasporto di pietre).

  4. la quarta fase (o terminale) dura una decina di giorni ed è indirizzata a reinserire il paziente nel suo mondo lavorativo, il lavoro è meno pesante mentre la lettura è limitata a delle opere assai semplici, che non abbiano alcun contenuto filosofico.

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