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  • Massimo Mannarelli

L'ISLAM BOSNIACO. DA TITO AD ALLAH


Quando in Bosnia usiamo la parola “Musulmani” (Muslimani) definiamo quegli slavi che per diverse ragioni si convertirono all’Islam durante il periodo ottomano (1499-1878). Tale definizione venne successivamente usata dal Maresciallo Tito (designando quindi un nome di nazionalità legata alla religione), a partire dal 1968, come designazione nazionale dell’intera popolazione slava musulmana di Jugoslavia, i quali potevano dichiararsi “Musulmani in senso nazionale” (con iniziale maiuscola) divenendo una delle nazioni costitutive della Jugoslavia socialista.

A tal proposito lo scrittore e dissidente montenegrino Milovan Djilas evidenziò «l’assurdità del nome Musulmano», in quanto veniva usato dai nazionalisti per negare la nazionalità stessa dei Musulmani. Secondo Djilas, i comunisti (di cui tra l’altro faceva parte) pensavano che i Musulmani fossero l’unico gruppo religioso senza consapevolezza nazionale, a tal motivo il termine venne introdotto nell’aspettativa che la maggioranza dei Musulmani sarebbe divenuta serba o croata.

Nonostante, quindi, il termine “muslim” sia oggi parte del modo di identificarsi della popolazione bosniaca, rimane il fatto che storicamente si poteva essere di nazionalità Musulmana e Testimone di Geova come era di norma, per esempio, nella città di Zavidovici.

Gli slavi musulmani che non si riconoscevano come croati o serbi, ma come altro, si misero nella condizione di non avere un territorio specifico in cui stabilire uno Stato nazionale finendo col legare la loro identità alla religione divenuta per molti slavi musulmani un importante indicatore della propria identità.

Vi è da dire che sul piano religioso, i musulmani della ex Jugoslavia e non solo, non sono un insieme omogeneo. Ad una maggioranza sunnita di rito hanefita, di cui fanno parte i bosniaco-musulmani, si accompagnano le confraternite sufi sciite alevi-kızılbaş e bektasci, attive soprattutto tra gli albanofoni e i turcofoni. Nell’ampio mosaico disegnato dalle differenziazioni tra i musulmani della penisola balcanica, la Bosnia risalta come un’area quasi omogenea, in cui i musulmani, per la quasi totalità sunniti e slavofoni, costituiscono nell’insieme la maggioranza relativa.

Quando si parla dell’islam bosniaco, si possono rilevare nella percezione europea ed occidentale due visioni completamente opposte di tale realtà. La prima legata al modello “turco-kemalista” in cui l’Islam assume tonalità decisamente laiche e moderne dentro il quale convivono professioni diverse e visioni materialistiche e laiche. Rušmir Mahmutcehajic, politico e scrittore, ha una visione positivistica dell’Islam, intesa come rivelazione che riconoscendo l’Antico Testamento offre un principio di universalismo più tollerante ed accettabile rispetto alle confessioni cristiane. Essendo la cristianità incorporata nell’islam, la cura per le altre comunità (croati e serbi) è incorporata nell’essenza dei musulmani bosniaci, come presupposto per la propria sopravvivenza. Questi sono perciò buoni per natura, dal momento che la loro sopravvivenza dipende dalla salvaguardia di tutte le comunità insieme. Una seconda visione, considerata “negativa”, vede e riduce l’islam bosniaco ad un ricettacolo di fondamentalisti e mujaheddin quale conseguenza della guerra degli anni novanta; da qui la “Dichiarazione islamica” del presidente bosniaco (1990-1996) Alija Itzetbegović viene considerata una sorta di “Mein Kampf” islamico. Queste due visioni contrapposte partirebbero secondo la stampa critica europea dallo stesso presupposto: l’islam bosniaco sarebbe un insieme omogeneo e stabile, di cui Izetbegovic avrebbe costituito la cosiddetta quinta essenza.

Nei fatti, in Bosnia come altrove, l’islam è una realtà mobile e plurale, attraversata da correnti e conflitti. Per comprendere le evoluzioni dell’islam durante e dopo il conflitto bosniaco, bisogna risalire alle origini del popolamento islamico nei Balcani, seguirne la storia sotto gli imperi ottomano e austro-ungarico, e sotto i due stati di Jugoslavia. Quindi seguire l’evoluzione del Partito di Azione Democratica (Stranka Demokratske Akcije - SDA, al potere dal 1990) e dei suoi fondatori panislamisti, la decomposizione dello spazio jugoslavo, il conflitto e il dopoguerra. Infine, bisogna studiare l’effetto dell’apertura internazionale sull’islam bosniaco, in termini di lotta armata (jihad), soccorso umanitario (ighatha) e predicazione (da’wa). Le giovani generazioni di musulmani balcanici iniziarono ad essere toccate dal riformismo musulmano, particolarmente sviluppato in Bosnia-Erzegovina e in Albania, dal tradizionalismo come reazione al riformismo, e dal panislamismo, che si incarnò in Bosnia nei primi anni ‘40 nel movimento dei Giovani Musulmani (Mladi Muslimani), quest’ultimi vennero a loro volta influenzati dalle ideologie montanti della prima metà del XX secolo: fascismo e comunismo.

Andando nel dettaglio si osserva come alla vigilia della seconda guerra mondiale, le identità nazionali tra le popolazioni musulmane dei Balcani erano ancora lontane dalla loro cristallizzazione, predominando, al contrario, le identità familiari, regionali, sociali, e soprattutto l’identità musulmana.

Nell’aprile 1941, la Bosnia-Erzegovina si trovò incorporata nello stato croato ustascia. Mentre i giovani comunisti raggiunsero la resistenza di Tito, i giovani musulmani aderirono al governo di Zagabria, prima tentando di ottenere nuovamente l’autonomia bosniaca, poi (1943) partecipando alla divisione SS “Handžar” (pugno), costituita su iniziativa del Gran muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini.

Al termine del secondo conflitto mondiale la repressione titina costrinse i giovani musulmani a passare in clandestinità e l’organizzazione “Mladi Muslimani” scomparve nel 1949; i giovani musulmani scampati alla forca e alla prigione furono costretti all’esilio o alla fine di ogni attività politica. Dal 1947, il Partito comunista jugoslavo puntò a ridurre l’influenza della Comunità islamica, attraverso la nazionalizzazione dei waqf (benefici delle istituzioni religiose) e la chiusura dei tribunali sciaraitici e delle madrasse, ad eccezione di quella di Sarajevo. Tale smantellamento delle istituzioni religiose islamiche, unito alla modernizzazione economica e culturale accelerata della società bosniaca, portarono al rapido declino della pratica religiosa: nel 1989 il 61% dei giovani bosniaco-musulmani dichiarava di non recarsi mai in moschea e solo il 14% dichiarava di farlo per convinzione religiosa.

Nel 1968 i “Musulmani” furono riconosciuti come sesta nazione (narod) e nonostante ciò produsse una riscoperta della storia e della cultura bosniaco-musulmana, tale nazione restò la sola a non essere direttamente identificata con una repubblica e a non disporre di istituzioni nazionali proprie. In tale contesto, malgrado la distinzione tra “Musulmani” in senso nazionale e “musulmani” in senso religioso, l’islam rimase il principale marcatore identitario della nazione bosniaco-musulmana, e la Comunità islamica tese ad erigersi in istituzione nazionale di sostituzione. Tale aumento di visibilità della Comunità islamica, paradossale in un contesto di rapida secolarizzazione, andò di pari passo con la crescita della autonomia dal potere politico e dei legami con il mondo musulmano (università arabe, Libia, Arabia Saudita, Lega islamica mondiale). In conseguenza di ciò, dagli anni ’70 alcuni vecchi “Giovani Musulmani” s’inserirono nelle sue attività, ricostruendo una rete informale, riprendendo i contatti con altri compagni rimasti in esilio, e legandosi anche a studenti stranieri.

Fu proprio negli anni ’70 che il già citato Alija Izetbegovic, “giovane musulmano” condannato a tre anni di prigione nel 1946, divenne velocemente la figura centrale della rinnovata corrente panislamista. La sua Dichiarazione Islamica divenne una sorta di manifesto informale, che circolava sottobanco, e alcuni passaggi vennero pubblicati sulla stampa religiosa. Dopo la rivoluzione iraniana del 1979 il timore della creazione di un “governo di matrice islamica” approfondì le differenze etniche all’interno della Lega dei Comunisti, e costrinse le autorità di Sarajevo a trovare un capro espiatorio. Nel marzo 1983, un’ondata di perquisizioni e arresti si abbattè sui principali rappresentanti della corrente panislamista dopo che cinque tra loro si erano recati clandestinamente a Teheran per assistere al Congresso di unificazione di sciiti e sunniti. In ottobre, Alija Izetbegovic, Hassan Čengic e altre undici persone vennero condannate a pene pesanti, per uscire dal carcere come martiri solo pochi anni più tardi, quando la crisi della Lega dei Comunisti e della Jugoslavia stessa era già ad un punto cruciale.

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