LA SOLITUDINE NELLA CRISTIANITA' ORTODOSSA
La parola esicasmo deriva dal termine greco “hesychìa”, che letteralmente significa riposo, pace spirituale, quiete. Il verbo “hesychàzo” si riferisce al monaco che vive in solitudine e in silenzio, che conduce una vita appartata e centrata sulla preghiera, sulla sobrietà e sull’attenzione interiore.
Il monaco autentico è chiamato a vivere, quindi, prima di tutto la solitudine. Si racconta in proposito: «Il beato arcivescovo Teofilo, si recò una volta dal padre Arsenio in compagnia di un magistrato. Chiese all'anziano di udire da lui una parola. Dopo un attimo di silenzio, egli rispose loro: "E se ve la dico, la osserverete?". Promisero di farlo. Disse loro l'anziano: "Dovunque sappiate che ci sia Arsenio, non avvicinatevi"» (Arsenio 7).
«Il padre Marco disse al padre Arsenio: "Perché ci sfuggi?". L'anziano gli dice: "Dio sa che vi amo. Ma non posso essere contemporaneamente con Dio e con gli uomini. Le schiere celesti che sono migliaia hanno un'unica volontà, mentre gli uomini ne hanno tante. Perciò non posso lasciare Dio per venire dagli uomini"» (Arsenio 13).
Solo i monaci che hanno acquisito una grande maturità spirituale e ove abbiano ricevuto da Dio specifico comando in tal senso potranno avere contatti (discreti) con il mondo. Per lo più il monaco è invitato a garantirsi una zona di calma, di silenzio, di solitudine per ricevere la formazione da parte di Dio e abituarsi alla sua silenziosa presenza.
Quando si è soli, nello spazio che si è soliti percorrere non si rischia di incontrare nessun essere umano. E’ una vera e proprio «fuga dagli uomini». C’è poi un’altra solitudine ossia quella che si sperimenta quando non si entra in conversazione con nessuno per lungo tempo: è la solitudine del silenzio.
Potrebbe parere in prima battuta che privare qualcuno della parola voglia dire privarlo della sua qualifica di “essere umano”, della sua dignità, in quanto l’uomo è l’unico essere dotato del dono della lingua parlata. Ma, d'altra parte anche nel linguaggio il silenzio in alcuni momenti diviene necessario in quanto alla base dell’ascolto.
L’uomo che prega deve essere attento alle parole dell’Uno che sono più preziose di tutte le voci udibili. Nella solitudine, quindi, il monaco è chiamato a vivere il silenzio.
Si racconta che Arsenio (il padre degli anacoreti), quando ancora abitava nel palazzo imperiale, pregò Dio con queste parole: “Signore mostrami la strada che conduce alla salvezza”. E una voce si rivolse a lui e gli disse: “Arsenio fuggi gli uomini e sarai salvato”.
Lo stesso, divenuto anacoreta, nella sua condizione di eremita, di nuovo rivolse a Dio la stessa preghiera, e intese una voce che gli disse: “Arsenio fuggi (il mondo), resta in silenzio e riposa nella pace. È da queste radici che nasce la possibilità di non peccare” (Arsenio 1.2).
Quest’ultima frase è all’inizio della vocazione degli esicasti: «Fuge, Tace, Quiesce: Fuggi, Taci, Riposa». La fuga dal mondo, il silenzio e la pace interiore sono quindi i tre atteggiamenti che danno forma allo stato di vita del monaco, in particolare dell’anacoreta.
L’esichia non vuol dire solo fuga dal mondo, ma indica pure una certa stabilità in un determinato luogo solitario. Questa esigenza è espressa con una famosa formula che poi è divenuta tradizionale: «Rimani nella tua cella, resta nel tuo eremo, ed essa ti insegnerà ogni cosa» (Mosè 6). Rimanere nella solitudine della cella è allora apertura allo Spirito, al suo fuoco e alla sua luce.
La cella è sicuramente l’ambiente per antonomasia dell’esichia. Dice Antonio il grande: «Come i pesci muoiono se restano sulla terra secca, così i monaci che si attardano fuori della cella o si trattengono con la gente, perdono la forza necessaria all’esichia. Come dunque il pesce al mare così noi dobbiamo correre alla cella; perché non accada che, attardandoci fuori, dimentichiamo di custodire il di dentro» (Antonio 10).
La cella però non può essere vissuta con lo spirito del proprietario. Il monaco sa di essere straniero su questa terra e così abbandona tutto ciò che può distoglierlo dal servizio di Dio, vivendo nel nascondimento e nell’attesa, sperando ardentemente nel ritorno del Signore glorioso. La solitudine esteriore è certamente importante, ma più necessaria è la solitudine del cuore. Qui si gioca l’autentica esichia, ovvero l’eremitismo o l’anacoresi interiore, il monachesimo del cuore.
La solitudine può, infatti, esprimersi pure in un atteggiamento di continuo pellegrinaggio da un luogo ad un altro. Una tale estraneità - xenitèia - indica una sorta di esilio volontario lontano dalle cose mondane. Il passare da un luogo ad un altro è imitare il cammino di Gesù.
Solitudine e silenzio praticati concretamente, rappresentano dunque il momento fondamentale dell’esichia del corpo, ossia dell’esichia esteriore. Una quiete che seppure esterna è fondamentale. Infatti, come afferma Macario: «Nessuno può avere l’esichia dell’anima, se non si è assicurato dapprima quella del corpo».
Dalla solitudine e dall’assenza di parole il monaco è chiamato a passare al silenzio profondo attivo e creativo. E questo è tutt’altro che quietismo. Al contrario è «ricerca della sola quiete possibile, che è la pace di Cristo, la pace esultante di Dio nel fondo del cuore».
Evagrio Pontico (345-399, monaco, scrittore ed asceta cristiano) affermava che il solitario deve essere due volte monaco: “uomo-monaco” e “intelletto-monaco”, cioè deve essere colui che evita il peccato sia nella azione che nei pensieri. Questo significa che il vero solitario è colui che non soltanto ricerca il silenzio esteriore, ma desidera creare nel proprio spirito un silenzio profondo favorito dalla concentrazione sul ricordo di Dio. Nella sua dottrina ascetica teorizzava la necessità di lottare contro i pensieri passionali che provocano nello spirito un’agitazione dannosa alla pace interiore e di custodire il proprio cuore e vigilare con attenzione (nepsis) sulla mente, affinché i pensieri passionali non ostacolino la contemplazione-orante e non offuschino la pace interiore dello spirito. La “nepsis” è un metodo spirituale di attenzione e vigilanza interiore che aiuta l’uomo a ostacolare la penetrazione nella mente dei pensieri passionali, che impediscono la preghiera. Non si può pregare con purezza se si è immischiati in affari materiali e se si è agitati da continue preoccupazioni. La vigilanza della mente rappresenta il punto di partenza perché la “preghiera pura” fiorisce solo in un’atmosfera di pace interiore, che si instaura nell’uomo, quando è riuscito ad espungere dal proprio animo i pensieri passionali che lo ingombrano.
Secondo Evagrio, la preghiera è elevazione dell'intelletto a Dio, per cui bisogna rinunziare a tutto per ereditare il Tutto.
La preghiera è un mettere da parte i pensieri non attraverso un conflitto selvaggio, ma una costante azione di distacco. Attraverso la ripetizione del Nome, si mettono da parte le cose ed i pensieri futili e dannosi sostituendo ad esse il pensiero di Gesù. Nella preghiera bisogna richiamare alla mente non ciò che deve essere escluso ma ciò che deve essere presente: Gesù.
Se l’attenzione divaga non bisogna scoraggiarsi, ma con gentilezza, senza esasperazione o rabbia interiore, riportatela indietro. Se essa vaga di nuovo, di nuovo riportarla indietro. Ritornare al centro, il centro vitale e personale che è Gesù Cristo.