L'AMORE PER DIO DEL PELLEGRINO CRISTIANO
L'intenzione del pellegrino deve essere solo legata all'Amore per Dio e non ci devono essere ulteriori motivi. La separazione dalla propria famiglia, significa l'abbandono degli agii della propria casa e questo può essere ottenuto con la determinazione ferma del pellegrino che volta sinceramente il proprio volto verso ciò che non è effimero: il pellegrino deve chiudere la porta di casa sua, proprio come se andasse in esilio e non tornasse più. Il pellegrino dovrebbe vedere il suo viaggio come la strada verso la Vita Eterna e ricordare che non è così lontana anzi è più vicina di quanto non lo fosse ieri.
Secondo Jung, il tentativo di realizzare e riconoscere l’identità tra microcosmo e macrocosmo altro non è che la proiezione simbolica della ricerca di una ricomposizione del conflitto e della scissione tra Io ed Es. È il principio d’individuazione che attiene al divenire del Sé ed in questo senso è la riproposizione demitizzata di quel processo che la letteratura e la mitologia hanno simbolicamente indicato nel viaggio come allegoria di una ricerca d’unità e sintesi psichica. Il viaggio, quindi, secondo la lettura junghiana, è la ricerca di radici e identità. Ma nel viaggio, in realtà, l’Io è L’Altro.
Nell'immaginario collettivo degli uomini del Medioevo il pellegrinaggio occupava un ruolo di grande rilevanza: non a caso la figura del pellegrino è un “topos” ricorrente nelle opere «colte», così come nella poesia popolare. Quest'ultima, accanto ad antiche ballate epico-liriche, ha tramandato numerosi strambotti tradizionali che testimoniano la diffusione della pratica dei pellegrinaggi. Si veda ad esempio il toscano «Pellegrin che vien da Roma» o il piemontese «Pelegrin che andé a San Giaco».
Nelle opere letterarie, poi, i riferimenti al pellegrinaggio sono ancor più numerosi: nella novellistica, ad esempio, dove dal Decameron al Tiecentonouelle il pellegrino è uno dei personaggi-tipo che si incontra più frequentemente. E la stessa cantica del Purgatorio, nella Divina Commedia, può essere letta, se si vuole, come una sorta di allegoria del viaggio dei pellegrini.
Nella figura del pellegrino (l'«homo viator»), il cristiano del Medioevo si riconosceva perfettamente, poiché l'esperienza del pellegrinaggio, annullando per un determinato periodo di tempo quei fenomeni (luogo natio, casa, famiglia) nei quali l'uomo tende naturalmente a mettere radici, permetteva di tradurre in termini reali il fatto che tutti siamo “advevae et peregrini”, in cammino verso il regno dei cieli. In un'epoca di forte sensibilità religiosa, qual era il Medioevo, il pellegrinaggio, con le dure prove fisiche che implicava, non rispondeva come riduttivamente è stato affermato, a una volontà di espiazione dei peccati, ma mirava soprattutto a realizzare una conoscenza più personale e diretta della propria fede.
Nel mondo cristiano sono esistite due forme di pellegrinaggio, in seguito collegate e fuse tra loro: il pellegrinaggio devozionale e il pellegrinaggio penitenziale.
Il primo esiste fin dall'epoca paleocristiana e faceva parte del processo di conversione: per liberarsi dalle ansie e dalle tensioni del mondo si partiva verso Gerusalemme, dove si viveva da "stranieri" e da "esuli" (secondo l'etimologia del termine "pellegrino"), magari fino al resto della propria vita. Un famoso esempio di pellegrinaggio devozionale fu quello fatto da Sant'Elena, madre di Costantino I, nel IV secolo.
Dopo aver ricevuto la benedizione dal proprio vescovo, il pellegrino procedeva al rituale della vestizione, che prevedeva la consegna delle varie componenti del suo abbigliamento: un mantello di ruvido tessuto (detto «sanrocchino», «schiavina», oppure «pellegrina»), un cappello a larghe tese, rialzato sul davanti e legato sotto il mento (il cosiddetto «petaso»), la bisaccia, una borsa floscia di pelle appesa alla vita ed infine il «bordone», un alto e robusto bastone di legno dalla punta metallica. Il tutto veniva solennemente benedetto davanti all'altare, seguendo un preciso rituale liturgico che presentava non pochi punti di contatto con le cerimonie della vestizione di un cavaliere e quelle di ordinazione di un sacerdote e questo ad ulteriore prova dell'intento della Chiesa di stimolare la pietà religiosa dei laici, assegnando loro una sorta di status privilegiato, quasi ecclesiastico.
Il pellegrinaggio penitenziale, o espiatorio, invece ha origini più tarde, legate a tradizioni di origini insulari (anglosassoni e soprattutto irlandesi), dove si diffuse nell'alto medioevo per venire poi esportato nel continente europeo dai missionari nel VI e VII secolo. Esso era originariamente una forma di dura condanna verso una colpa molto grave (dall'omicidio all'incesto), nella quale incorrevano soprattutto gli ecclesiastici, non essendo essi sottomessi al diritto dei laici. Il reo era condannato a vagabondare in continuazione, per terre sconosciute e pericolose, vivendo nella povertà grazie solo alle elemosine, impossibilitato a stabilizzarsi altrove, lavorare e rifarsi una vita: quindi in maniera molto simile alla vita fatta da Caino dopo l'omicidio di Abele (Genesi, 4, 12-14). Essi dovevano portare ben visibili i segni del loro peccato: giravano infatti nudi, scalzi e con ferri che ne cingevano i polsi e le gambe. Non a caso in vari testi agiografici altomedievali ci sono passi in cui le catene si spezzano improvvisamente quale miracolo (piuttosto frequente) che segnalava la fine decisa da Dio della pena.
Le prime notizie di pellegrinaggi penitenziali diretti a una specifica meta risalgono all'VIII secolo. I pellegrini avevano anche alcuni segni non infamanti che li contraddistinguevano: il bordone, la bisaccia e i segni del santuario verso il quale si era diretti o dal quale si tornava, ben in vista sul copricapo o sul mantello.
Gli imperatori carolingi scoraggiavano tali pratiche per ragioni di ordine pubblico; nello stesso periodo i vescovi iniziarono a inviare questo particolare tipo di criminali direttamente al pontefice, affinché fosse lui a comminare la penitenza o a concedere un'assoluzione, anche se ciò causò talvolta conflitti tra alcuni vescovi e il pontefice: infatti, i condannati, se pensavano di essere stati trattati con eccessiva durezza dal proprio vescovo preferivano migrare fino a Roma in cerca di pene meno severe, con un conflitto di competenza che all'epoca non era regolato da alcuna disciplina e che era segno della fatica di alcune diocesi di accettare la supremazia romana in maniera più che simbolica.
Con l'uso di andare a Roma dei pellegrini penitenziali, essi si sovrapposero ai pellegrini devozionali, che ivi visitavano le tombe e le reliquie degli apostoli Pietro e Paolo. Durante il medioevo le due forme di pellegrinaggio si sovrapposero fino a confondersi e uniformarsi: ogni pellegrino cercava l'espiazione di qualcosa.
Ai pellegrinaggi verso Roma e la Terrasanta nel corso dell'XI secolo la potente abbazia di Cluny si fece promotrice di un'altra destinazione, la città di Santiago di Compostela in Galizia, dove esisteva la (presunta) tomba dell'apostolo Giacomo. Santiago aveva il vantaggio di unire il flusso dei pellegrini al processo di Reconquista della Spagna allora musulmana.
Per quanto riguarda Gerusalemme essa era fin dal VII secolo in mano ai musulmani, in un'area contesa tra i califfati del Cairo (fatimide, sciita) e di Baghdad (abbaside, sunnita). I pellegrini cristiani potevano visitare la città e le chiese al prezzo di pagare per i salvacondotti.
I devoti che riuscivano a raggiungere l'agognata meta usavano appuntarsi sull'abito particolari segni distintivi, quasi a testimoniare l'avvenuto adempimento di un voto. Se si era stati a Santiago di Compostela, era d'uopo cucire sul petaso o sulla mantella una delle celebri conchiglie galiziane, mentre chi si era recato a Gerusalemme tornava con un ramo di palma di Gerico. A Roma le insegne che provavano l'effettuazione del pellegrinaggio, inizialmente erano derivate dagli abiti ecclesiastici (scapolari, pazienze), più tardi furono sostituite da piccoli rilievi di piombo con immagini popolari (le quadrangulae) e, ormai in età moderna, da attestati a stampa con le immagini dei Santi Pietro e Paolo. Coloro che avevano fatto numerosi pellegrinaggi ostentavano i distintivi collezionati, come quel pellegrino descritto nel Piers Plowman che aveva «un centinaio di ampolle attaccate al suo cappello / emblemi del Sinai e conchiglie di Galizia / e molte croci sul suo mantello e chiavi di Roma / e la Veronica anzitutto; perché gli uomini devono sapere f e vedere dai suoi simboli chi aveva ammirato».
Fino all'XI secolo i pellegrinaggi furono un fenomeno esistente, ma piuttosto limitato, per l'insicurezza generale ed anche per una certa diffidenza da parte della stessa Chiesa: essi andavano oltre il controllo delle diocesi, che era saldamente territoriale, e non era gradito dagli ordini monastici, che seguivano il precetto della stabilitas loci, che impediva a un monaco di cambiare monastero. Essi inoltre sostenevano in genere che la propria "Gerusalemme" andasse trovata nel cuore di ogni cristiano.
Chi decideva di compiere un pellegrinaggio doveva procurarsi i mezzi per equipaggiarsi e per sopperire alle spese per il proprio sostentamento per un periodo più o meno lungo. In una economia che ancora si caratterizzava per la scarsità della moneta circolante, nella maggior parte dei casi si era pertanto costretti a vendere o ad ipotecare i propri beni onde realizzare una certa disponibilità monetaria. Data la pericolosità dei viaggi, inoltre, prima di prender commiato era buona norma per un pellegrino far testamento, nominando gli eredi e dando disposizioni in ordine all'amministrazione del proprio patrimonio durante I'assenza. Una prassi, disgraziatamente non sempre rispettata, voleva comunque che i beni e gli effetti di chi partiva per un pellegrinaggio rimanessero sotto la protezione della Chiesa.
Chi tornava dall'esperienza del pellegrinaggio veniva considerato come arricchito di una grazia speciale ed era perciò tenuto in grande considerazione. Anche per questo i pellegrini erano ritenuti nel Medioevo una sorta di «ordo» particolare, formale come gli stessi ordini monastici. Il grande riformatore benedettino Guglielmo di Hirsau, ad esempio, distingueva nella Chiesa di Germania cinque ordini, ciascuno dei quali possedeva una propria specifica missione spirituale. Uno di questi accoglieva, oltre agli eremiti, i pellegrini che, come i primi, avevano rinunciato al mondo, seppure temporaneamente, entrando a far parte di una «casta iniziata di santuomini».
Il pellegrinaggio, forma di pietà religiosa sostanzialmente libera, era difficilmente disciplinabile. Quando assunse i caratteri di un fenomeno di massa, era naturale che le autorità ecclesiastiche si preoccupassero che tutto non si riducesse a una pratica esteriore, nonché del rischio che ai pellegrini si mescolassero briganti, trafficanti, donne di malaffare, «persone frivole e curiose». Pertanto si esortava a una scelta oculata dei compagni di viaggio. Si tendeva, infatti, a viaggiare in gruppo, e ciò per motivi di sicurezza. Non a caso, negli Annales Stadenses, più volte si informavano i pellegrini sulla pericolosità di certi luoghi e si consigliava loro di stare in guardia. Così sull'attraversamento del Po: «nequissimi manent ibi leccatores. Thanseas ergo contra diem, non contra noctem» oppure, sulle Alpi, a Covalle: «nequam in antro: cum sociis transeas»».
Ad ogni modo, lungo gli itinerari più frequentati era in fondo impossibile durante il percorso evitare di raccogliere gente e il viaggiare insieme diventava normale. Anzi in determinate occasioni i gruppi divenivano moltitudini, come lascia supporre la testimonianza di Giovanni Villani, relativa al Giubileo del 1300, quando diceva che «...i Tedeschi e gli Ungari in gregge, e a turme grandissime, stavano la notte a campo stretti insieme per lo freddo, atandosi con grandi fuochi».
Se nel neoplatonismo il viaggio per mare simboleggiava il cammino iniziatico che l’anima compie per arrivare alla conoscenza del Sapere Assoluto, per Hegel nella Fenomenologia dello spirito, la coscienza, che ancora ignora, intraprende il suo cammino per giungere alla scienza dell’Assoluto stesso.
Hermann Hesse ne “Il lupo della Steppa” pensa in fondo che la panacea in grado di curare la lacerazione psichica del suo viandante - rappresentato da un intellettuale di cinquant’anni incapace di far convivere nella sua anima cultura e pulsionalità - sia di discendere dalle vette dello spirito per tuffarsi nel fluire irrazionale del fiume del divenire, ossia di abbandonarsi alla gioiosa imprevedibilità della vita ( pur senza rinunciare, beninteso, allo spirito).
Secondo la visione nietzschiana il viandante che rinuncia ad abitare nella comunità delle macchine fa professione di irriducibile nichilismo e tuttavia rivolge un’attenzione vigile all’inesorabile crescita del deserto spirituale circostante. Non crede quasi più in nulla, ma ha la capacità di gettare sulle cose uno sguardo che le anima e le illumina. Nietzsche descrive bene questa condizione di solerte vigilanza, nella sua teorizzazione di un nichilismo attivo, perfetto, che assuma su di sé la consapevolezza della fine dei valori tradizionali e possa permettere all’uomo di attraversare il "deserto che cresce" del nichilismo. Il viandante proprio perché non abita più in nessun luogo, può nel suo incessante peregrinare assimilare la frantumazione dei saperi, episodicamente rasentati nel suo passaggio, e riproporre quell’aspirazione ad una universalità della conoscenza, che metta fine alla dicotomia della cultura in umanistica e scientifica.
Il significato simbolico della figura del viandante è quindi racchiuso nell’idea di una perdita della conoscenza suprema, e quindi del controllo sull’alterità, che costringe a rimettersi in giuoco e a confrontarsi con un vitalismo che ribadisce la priorità dei fenomeni della vita, e quindi la loro irriducibilità alle categorie puramente astratte dell’intelletto filosofico e scientifico. È in fondo la metafora dell’estraneamento spirituale dell’uomo contemporaneo che abita il mondo della tecnica.
È l’attraversare un mondo, improvvisamente diventato estraneo, in attesa di una sua riappropriazione teoretica, forse più utopica che pianificabile. In questo senso il vagabondare del viandante può rimandare anche ad un’ulteriore significazione simbolica, in cui il viaggio è un’allegoria iniziatica del cammino dello spirito che cerca e trova alla fine sé stesso nel mondo delle cose oggettivate.